Il Capitano Mario (VII)

Da Fabry2010

di
Maria Frasson

(puntate precedenti: I, II, III, IV, V, VI)

Percorso di riflessione

Mentre passavano i giorni meditavo sulla mia avventurosa vicenda nuziale.

Era la più importante svolta nel corso della mia vita, accettata come una grande grazia, con l’umiltà di chi si affida e ne riceve in cambio tutta la forza di chi confida.

Tornavano a proposito le parole di una recente lettera della mia santa madre Galli, che era sempre al corrente di ogni mia vicenda, che diceva: “Il Signore l’ha veramente benedetta, cara Maria, facendole incontrare un giovane di tanto merito”. Pensavo spesso a quei lunghi quattro anni trascorsi nella gioia e nella sofferenza, conclusi in un matrimonio che ci eravamo abituati – a causa delle circostanze – a considerare tanto lontano, ed era avvenuto così inatteso da sembrare un sogno: felice e doloroso insieme. Come era sempre stata la mia vita. Cercavo di ricostruire lo stato d’animo di Mario che negli ultimi tempi viveva serenamente nell’attesa di ritornare – avendo il congedo già firmato – ai suoi amati studi di Pavia, mentre stava per prendere la decisione, indubbiamente sofferta, di partire volontario per la guerra in Africa Orientale, con i suoi alpini.

Ma non furono gli Alpini a determinare la sua scelta: fu quella invece di cogliere l’occasione, unica e irripetibile, per raggiungere il tanto sospirato matrimonio e formarsi quella famigliola che era il suo sogno, e che avrebbe anche potuto mantenere col suo stipendio di ufficiale. Decisione sofferta, ripeto, all’idea di lasciarmi: “ma so che sei forte” mi disse.

Tutto questo lo capivo dalle sue lettere più recenti, ed ora mi appariva chiaro, come altrettanto chiara si leggeva fra le righe la sua preoccupazione per quella che era diventata “la sua donna”.

Ed ora, nel silenzio che si era fatto in me, ripercorrevo i giorni e gli anni recentemente trascorsi e ne rivivevo la memoria (che mi faceva compagnia), approfondendone la comprensione.

Da principio eravamo stati costretti a vivere troppo lontani e per troppo lungo tempo, e questo nuoceva alla nostra reciproca comprensione, affidata unicamente alle lettere che ci scrivevamo quasi a giorni alterni, regolarmente. Erano stati per noi anni difficili. Omero dice che l’animo umano è meraviglioso e grande; io direi piuttosto che è misterioso, perché a volte non comprendiamo a fondo neanche noi stessi.

Mario era di una sincerità sconcertante e di un tale rigore verso se stesso che mi sembrava eccessivo. Aveva una spietata ripugnanza per certe sue precedenti turbolenze sessuali che io non capivo e ritenevo assai comuni nei giovani. Perciò non potevo tollerare che fosse tanto geloso nei miei riguardi, fino ad odiare le frequenti volgarità dei compagni di studio o dei compagni d’armi se parlavano di donne: io dicevo che tutto questo mi era indifferente, che non mi toccava affatto; tuttavia col tempo riuscii a capire meglio la sua sensibilità eccessiva e a moderare i miei scatti di ribellione dettati dall’orgoglio. Lui era infinitamente migliore di me, quantunque tendessimo entrambi nei nostri rapporti a perfezionare noi stessi. Io ero convinta che – nonostante le sue ombrosità – nessuna donna avrebbe potuto amarlo più di me e lui si affidava a questa convinzione. Io ero estroversa, impulsiva, spesso discontinua e sconcertante; lui sempre padrone di sé e sempre estremamente volitivo. Mi era di grande aiuto spirituale, e soprattutto mi dava coraggio nella mia fragilità psicofisica perché diceva “basta per superarla la perseveranza della volontà”. Era vero: quando eravamo insieme ogni contrasto svaniva: vicino a lui io mi sentivo bene, mi sentivo serena.

Miracolo dell’amore: quando arrivava, facevo uno sforzo enorme per contenere la mia emozione, quando ripartiva mi mostravo altrettanto serena; però, dopo, svenivo. Mia madre interpellava il medico e lui mi prendeva in giro. Ma nei momenti più gravi c’era il Signore che mi dava una forza straordinaria: la Sua presenza.

Queste ed altre cose andavo ripensando nei giorni e nei mesi che seguirono il nostro matrimonio.

Ritornata da Trento, sola, alla mia casa nella dolce Brianza cara alle nostre passeggiate serene, mi ripresentai al Preside, a cui da Trento avevo telegrafato e ai colleghi, da lui informati dell’evento nuziale, accolto con gioiosa sorpresa. Fui come subissata dalle loro espressioni d’affetto.

E non solo i colleghi, ma anche tanta gente che conoscevo appena veniva ogni giorno a far visita alla “Sposina” con un piccolo regalo (i famosi pizzi) o con un fiore o con qualunque altro segno d’affetto.

Avevo dei colleghi simpaticissimi che, in parte, arrivavano da Milano con la Nord un po’ prima dell’inizio delle lezioni. Erano per lo più giovani (in attesa di migliore sistemazione), sempre allegri e in quella mezz’oretta di attesa in sala dei professori rifacevano il varietà che avevano visto la sera prima per farmi divertire, divertendosi. Ogni mattina mi chiedevano se avevo notizie di mio marito, poi, se non ne avevo, via via che passavano i giorni, non chiedevano più: quando aprivo quella porta a vetri, si voltavano a guardarmi in silenzio. Non osavano: parlava l’affetto dei loro sguardi. Finché ero io che, aprendo la porta, dicevo subito: “E arrivata una lettera”. Allora si scatenavano: applaudivano, ballavano, saltavano persino sul tavolo. Per fortuna non ci vedevano gli alunni. Severa dignità professorale, dove te ne andavi a finire?

Non ci fu mai, durante la mia carriera scolastica, un ministro della Pubblica Istruzione, alias Educazione Nazionale, che non si mettesse in mente di fare una riforma o almeno di emanare dei decreti uno più insensato dell’altro. Così era, così è.

Dopo una massacrante maturità classica, chi – dopo la laurea – si presentava ai concorsi per cattedre di materie letterarie nelle scuole medie inferiori (quelle superiori come già dissi, erano vietate alle donne, che dovevano solo generare, ma mai educare dei cittadini-soldati) doveva svolgere un solo tema scritto, non, secondo la logica, in italiano, ma in latino, oltre ai quattro specifici esami orali. Sempre a Roma. Io, che ero ingenua e credevo nella giustizia (come il povero Renzo quando dice “A questo mondo c’è giustizia finalmente”) mi trovavo sempre in coda nella graduatoria dei vincitori, ma mai inclusa fra questi, o per insufficienza di titoli, o di cattedre messe a concorso, o perché gli esaminatori si trovavano in ritardo nella valutazione dei titoli, di fronte alla scadenza del 31 dicembre, quando le nomine venivano bloccate. Altri concorrenti invece mi precedevano – chissà come – con una valutazione inferiore alla mia. Così ogni anno dovevo raccogliere i vecchi cenci delle mie inutili speranze, e ricominciare da capo. E ci rimettevo la salute.

Novum iter

Accade a volte che, spalancando le finestre un bei mattino, entri improvvisamente la grazia di Dio in una luce così abbagliante da rimanerne come accecati. Così accade durante la notte, che avvolge questa povera e spesso così buia esistenza dell’uomo, che scenda dal cielo una pioggia inavvertita e benefica e che poi all’alba, tra le fronde rinverdite, una ne scopriamo, con stupore, rivestita d’oro alla luce del sole nascente. Perché tutto è segno di grazia.

Bloccarono i nuovi concorsi quell’anno a causa della guerra e fu decretato il passaggio in ruolo dei vincitori rimasti in graduatoria suppletiva nell’anno precedente. Mi arrivò così la sospirata nomina in ruolo nelle scuole statali e per di più l’assegnazione all’unica cattedra disponibile all’Istituto Tecnico di Pavia. Cattedra ambitissima perché in sede universitaria, con poche ore d’insegnamento e vicina a Milano. Non potevo credere a questa gioia inaspettata.

A Pavia trovai un ambiente gelido, ben diverso da quello che avevo lasciato a Cantù, ma ero molto soddisfatta della mia sistemazione in ruolo e lo fui anche più quando, trovata finalmente la casa, mi raggiunse mia madre. Col telegramma ministeriale mi ero presentata al Preside che non aveva ancora ricevuto nessuna comunicazione e faceva il duro perché era stato da poco trasferito a Pavia dalla Sicilia. (In seguito diventammo grandi amici). Mi disse seccamente che l’unica cattedra disponibile era la 2a B, la più diffìcile per la disciplina a cui teneva molto. Gli dissi che non si preoccupasse della disciplina, benché io non conoscessi affatto né l’ambiente, né la città, dove ero approdata per la prima volta, in attesa che fosse tornato, per laurearvisi, mio marito, il quale stava ora combattendo in Africa Orientale come ufficiale degli Alpini. Il senso della Patria contava quanto quello della disciplina; il Preside alle mie parole cambiò di colpo: mi fece auguri e rallegramenti, scendendo dal piedistallo della sua autorità. E quando la mattina dopo la 2a B scese dalle scale in perfetto silenzio, inquadrata militarmente e mentre tale rimase, perfettamente disciplinata, anche in seguito, non potei più dubitare della sempre accresciuta sua stima.

Avevo vinto, e non soltanto il concorso.

(continua…)



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