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Il cappotto di astrakan – Piero Chiara (estratto)

Creato il 23 gennaio 2014 da Maxscorda @MaxScorda

23 gennaio 2014 Lascia un commento

Avevo ormai camminato per tutta Parigi. Guardando nelle stazioni del metrò le piante della città, mi accorsi che in un mese o poco più l’avevo percorsa in ogni senso.
Vedevo, nelle planimetrie, l’Ile SaintLouis al centro dell’agglomerato urbano, che è pressappoco rotondo o meglio a forma di una pagnotta, e facevo girare da quel punto un raggio per cent’ottanta gradi senza trovare strade che non avessi battuto, chiese, monumenti, palazzi storici, giardini, cimiteri che non avessi visitato.
Mi chiedevo che senso avesse restarci ancora, se non facevo conoscenze e non trovavo quasi più nulla di nuovo da vedere.
Ma un giorno, avendo deciso di avvicinarmi a casa prima di sera per prendere un caffelatte coi biscotti in una latteria, passando per rue Chevalier, nei pressi di place Saint-Sulpice, fui sorpreso da una vista inaspettata.
Dietro le tapparelle non completamente abbassate d’una stanza al primo piano della casa di fronte, era possibile intravedere una donna nuda.
Negli spazi tra le listarelle si delineava a tratti luminosi, la sagoma d’un bel corpo, interrotta e come tagliata dalla luce ogni due o tre centimetri.
Forse la donna faceva degli esercizi o si studiava a uno specchio, perché prendeva posizioni da ballerina, alzando le braccia, riunendole dietro il capo o mettendole ai fianchi.
Improvvisamente la visione che mi aveva immobilizzato quasi sull’attenti, scomparve.
Restai a lungo sul marciapiede, riscaldato dallo spettacolo che si era of~erto ai miei occhi e attento al portoncino nella speranza di poter riconoscere, benché rivestito, il modello femminile che mi aveva colpito.
Dopo una mezz’ora la stanza cadde nel buio e quasi subito una ragazza uscì sulla strada.
Era una personcina snella, dal passo rapido e un po’ ondeggiante.
Camminava a testa alta, guardando lontano e facendo svolazzare una gonna azzurra che le arrivava fino a metà polpaccio.  Aveva i capelli d’un bel rosso rame, ondulati, che le scendevano fino alle spalle, e teneva una borsettina sotto il braccio.
Di faccia non riuscii a vederla, tanto improvvisa fu la sua comparsa sul portoncino e tanto rapida la sua scomparsa allo svolto della strada.

Nel giorno seguente alla stessa ora ero fermo sul marciapiede di rue Chevalier in attesa dell’apparizione.
Dopo pochi minuti vidi accendersi la luce e potei assistere al ripetersi dello spettacolo.
Appena la luce venne spenta nella camera, passai all’altro marciapiede e mi riusci’ di vedere in faccia la ragazza, che uscita di casa mi passava sotto il naso col volto teso e lo sguardo lontano, attraverso un paio d’occhiali cerchiati di tartaruga colore ambra, senza neppure accorgersi di me.
L’aspettavo ormai ogni sera, più o meno vicino alla sua casa, ma senza che mi notasse mai.
La vedevo uscire, avvicinarsi, sorpassarmi senza vedermi o almeno senza guardarmi, poi perdersi tra la gente che percorreva il marciapiede.  Decisi di seguirla.
E una sera potei accertare che dopo aver percorso me Madame, svoltava in me de Mézières, traversava me de Rennes e me d’Assas, sbucava nella piccola place Deville che ha un lato aperto sul boulevard Raspail, risaliva per un tratto, suonava al portone di un palazzo e restava un minuto in attesa che qualcuno aprisse dall’alto premendo un bottone. Entrava senza voltarsi indietro e con un colpo secco chiudeva il battente.
Quando l’ebbi incontrata e seguita una decina di volte potei dire di conoscerla.
Doveva essere un’impiegata che viveva sola in una stanza ammobiliata, come me.
Tornava a casa dall’ufficio, faceva un bagno o una doccia, si cambiava d’abito e andava da una famiglia amica in boulevard Raspail, dove restava a cena e a passare la sera.
Oppure in boulevard Raspail aveva un amante, per il quale si preparava davanti allo specchio, studiando le mosse che avrebbe ripetuto più tardi.
Era, certamente, una donna di carattere, padrona dei suoi atti e dei suoi pensieri.
Non si guardava mai attorno e camminava cosi spedita che nessuno avrebbe mai pensato di fermarla.
Mi venne, considerandola e studiandola, una povera idea: una sera, sull’angolo del boulevard feci in modo d’incrociarla prima del portoncino e la fermai per domandarle se sapeva indicarmi rue de Fleurus.
La seconda a destra mi rispose seccamente, indicando a sinistra, verso l’alto.
E se ne andò, dopo avermi guardato dalla testa ai piedi, senza badare ai miei ringraziamenti.
Mentre si allontanava a busto eretto, la seguii con lo sguardo, prima di avviarmi verso rue de Fleurus.
Aveva fatto forse dieci passi, quando si voltò di scatto.
Mi girai subito come una marionetta, ma troppo tardi.
Una donna cosi severa, composta, un po’ all’antica nei modi, cittadina, per me che venivo dal Lago Maggiore e portavo indosso, come tutti quelli cresciuti in un paese, una crosta di rustichezza, era irraggiungibile. tanto più dopo essermi compromesso con quell’espediente.
Mi aveva certamente notato più volte lungo la sua strada senza darne segno, e vedendomi di fronte con quella domanda in bocca, degna di un Renzo Tramaglino che arriva a Milano dalla campagna, mi doveva aver classificato tra i gonzi. Non avendo ormai più nulla da perdere, decisi di continuare nei miei appostamenti.
Ogni sera, all’ora giusta, ero sul marciapiede di rue Chevalier a guardare la sua finestra chiusa e le ombre cinesi che disegnava col suo corpo dietro le tapparelle.
Poco dopo la incrociavo sul marciapiede o camminavo parallelamente a lei su quello opposto, fino al boulevard Raspail, dove mi fermavo per guardarla traversare e poi scomparire dietro il portone del palazzo nel quale entrava ogni sera. Benché fingesse di non vedermi, ero convinto che mi notasse con la coda dell’occhio e mi tenesse sotto controllo. Ormai avevo studiato, oltre alla sua figura, anche la sua faccia. Dietro gli occhiali aveva due occhi fermi, grigi e freddi. Il viso era fortemente rilevato, come quello dei manichini che vedevo nelle vetrine delle Galeries Lafayette o al Bon Marché, con gli zigomi alti e le guance sinuose che davano slancio alle labbra, prominenti e ben disegnate dalla natura prima che dal rossetto, del quale non faceva certo economia. Aveva una bocca mobile, sempre chiusa e così piena d’espressione da togliere ogni importanza al naso, piccolo, costellato di lentiggini e un po’ all’insù, destinato apparentemente solo a sostenere il ponte degli occhiali, che completavano la sua fisionomia piena di sicurezza e di concisione. Poteva avere venticinque o ventisei anni, forse di più ma non di meno.
Come mi potesse interessare un tipo simile, me lo chiedevo spesso.
Ma ero ormai imbarcato nell’impresa, un po’ poliziesca, di scoprire quale fosse la sua vita.
E mi pareva, o mi conveniva di credere che una delle ragioni per cui mi trattenevo a Parigi era l’intenzione di conoscere, dopo la città, i suoi abitanti, scegliendone qualcuno a caso e studiandolo a fondo.
Passate un paio di settimane in queste ambagi, stimai giunto il momento per un passo estremo. L’avrei fermata sul boulevard per parlarle apertamente. Non andai quella sera sul marciapiede e la aspettai nel mezzo del viale, tra le piante, dove solitamente traversava. 
- Permette, dissi quando mi passò vicino vorrei parlarle un momento.
Si fermò e mi dardeggiò attraverso gli occhiali sbattendo le palpebre allibita e senza reprimere una smorfia di disgusto. 
-  Vuol sapere da che parte è rue de Fleurus? ~ mi prevenne.
E restò a guardarmi, muovendo le labbra in modo ironico, per un vezzo innato, che avevo già notato in una mia insegnante molti anni prima e che mi sembrava un tic rivelatore di qualche inquietudine o impazienza: un difetto, in fondo, ma che interessando delle labbra carnose e ben disegnate, finiva co] diventare un’attrattiva.
Non mi lasciò tempo per rispondere e riprese: Si vede che lei non ha nulla da fare, se passa il tempo a pedinare delle donne.
Ma le voglio dire che con me si stancherebbe, perché non faccio conoscenze per la strada .Stava per riprendere il passo, convinta d’avermi sistemato, ma l’espressione della mia faccia la fermò.
Mi vide infatti così contristato e interdetto che si arrestò un istante per lasciarmi dire le parole che avevo cominciato a buttar fuori.
Sono un italiano dissi. Vivo qui da due o tre mesi per imparare la lingua e per conoscere Parigi. In tre mesi non ho fatto una conoscenza. Ho bisogno di avvicinare qualcuno. Vengo da un paese del Lago Maggiore dove, se arriva un francese, dopo un paio di giorni ha già degli amici.
Rimase colpita e mi guardò con l’aria di volermi studiare un tantino, lasciandosi nel contempo traversare la mente da un pensiero che mi parve d’intuire: non solo si era accorta da tempo che la pedinavo, ma forse mi aveva visto fermo sul marciapiede mentre guardavo verso la sua finestra.
Se è cosi… disse.
Ma perché si è rivolto proprio a me con tutta la gente che c’è a Parigi?
Mi sono rivolto a lei risposi perché non posso fermare un uomo…
Capisco, ma con tante donne che ci sono, perché si è rivolto proprio a me?
Non volevo parlare della finestra e dirle che tra di noi si era stabilita, col mio guardare e il suo lasciarsi guardare, un certo rapporto. Dissi soltanto che abitando da quelle parti mi era caduta lei sotto gli occhi e mi aveva ispirato fiducia.
Va bene, disse allora in tono molto remissivo mi dica cosa posso fare per lei.
Permettermi di parlarle di tempo in tempo.
Anche solo durante il tratto di strada che fa ogni sera da casa sua fin qui.
Rimase un momento pensierosa, poi improvvisamente usci a dire tutto d’un fiato: Potrei concederle ogni tanto una mezz’ora.
Ne sarei felice.
Allora riprese domani alle diciotto mi aspetti all’entrata del Luxembourg, in rue de Vaugirard.
Posso sapere il suo nome? domandai.
Valentine rispose in un soffio.


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