Il carcere malato, fatto anche di gente malata, è un macello.

Da Nottecriminale9 @NotteCriminale
Marina Angelo

E’ un lento logorare giorni, mesi anni e possederti. E’ un viaggio obbligato insieme a qualcuno che detesti. E’ la fine che non necessariamente si chiama morte ma che comunque fa cessare “ciò che eri”. 
L’ho visto quando l’ho incrociato in amici, parenti, conoscenti e, seppure sconosciuti, è una notizia che faresti volentieri a meno di apprendere. 
 Ricordo in particolare il padre della mia migliore amica, morto per un cancro ai polmoni. Un male che ha devastato un’intera famiglia e che, con tutta la forza di cui si è capaci, non è ancora stato del tutto metabolizzato. 
Rimane sempre troppo poco tempo  per viversi insieme le ultime boccate di vita. Troppo poco tempo per rimediare a qualche errore, per riallacciare rapporti rotti, per dire semplicemente ti voglio bene. 
L’altro esempio è quello di una donna con una forza interiore capace di lottare e vincere due tumori al seno ma essere battuta poi da un terzo. Si logora anche l’intensità della lotta. Si deteriora la tua stessa coscienza. E hai tanta rabbia perché una mamma e una donna così speciale non può morire. Non può morire chi ama la vita, i fiori, la natura, le piccole cose. Non può finire chi gioisce per poco, chi vive di amore chi ami. Non può. 
Eppure succede. 
E poi c’è pure chi non conoscevi ed hai imparato ad amare. Una persona speciale, talmente speciale che ha lottato da sola contro un tumore e l’ha vinto. Fiero e forte come ogni sua battaglia, è andato avanti a testa alta voltandosi indietro solo per ricordare di amare anche il briciolo che ha perché è importante. 
 Una premessa lunga e triste, lo so, ma necessaria. 
La vita dentro e fuori i social network è pregna di informazioni e notizie che a volte passano inosservate, certe altre qualcuno te le fa notare con ardore, con passione, per giustizia. E’ questo il caso di Asia, un’amica di Antonella D’Agostino, moglie del più famoso bandito italiano, Renato Vallanzasca, e autrice di un libro di prossima uscita su Francis Turatello. 
E’ Antonella che mette alla mia attenzione una storia che sintetizzata, suona assai triste. Asia è la figlia di un carcerato, condannato dalla legge a scontare una pena lunga e dalla vita a lottare con un tumore. Ma la ragazza non ci sta. E’ da lei che parte il primo grido oltre le mura del carcere. 
E’ lei che prova a far uscire questa storia dalle sbarre perché in fondo, dentro pare non interessi a nessuno e nessuno, purtroppo lì può salvarlo. 
Diego, Massimo Lombardo, 52 anni, è attualmente detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per una condanna definitiva per truffa. Il reato risale ad oltre quindici fa ma da allora, per lui, come nella vita di tanti uomini, molte cose sono cambiate: una per tutte, il suo stato di salute. 
Massimo è affetto da un carcinoma al polmone, come è stato certificato dalle due strutture sanitarie presso le quali sono stati eseguiti esami approfonditi (la Neuromed di Pozzilli, la clinica Pinetagrande di Pinetamare e uno specialista privato, l'oncologo Achille Cennami). Il papà di Asia, ha beneficiato della misura della detenzione domiciliare fino al 25 novembre scorso, quando gli è stata però revocata per un cumulo di pena che superava i tre anni di condanna. 
Da quel venerdì, l’uomo è in carcere per l'espiazione della pena residua. Eppure, durante la detenzione domiciliare, il signor Lombardo era stato autorizzato a recarsi senza scorta presso la struttura di Pozzilli Neuromed, al fine di effettuare esami obbiettivi (PET) strumentali all'accertamento e alla corretta definizione di una massa tumorale, rilevata in un precedente accertamento clinico effettuato presso la clinica Pineta Grande di Castel Volturno.
Quegli esami hanno confermato il male: Massimo Lombardo è affetto da «carcinoma polmonare dx con sospetti secondarismi a livello del lobo superiore bilateralmente», una patologia che, per la sua gravità, avrebbe richiesto ricovero urgente presso una struttura oncologica specializzata, per un approccio plurispecialistico, o un possibile intervento chirurgico. Non solo. Considerata la potenziale aggressività del tumore diagnosticato e la prognosi di vita incerta, lo specialista privato, l'oncologo Achille Cennami, il 24 novembre 2011, affermava rigorosamente che contravvenire ad un ricovero immediato presso struttura ospedaliera idonea, potrebbe compromettere la stessa vita del Signor Lombardo. 
Di tutto ciò, però, non è successo nulla. L’uomo da allora, è ancora in carcere. La figlia, e la famiglia tutta, combatte per dare la possibilità a Massimo di potersi curare con dignità in una struttura adeguata, ai domiciliari o, in alternativa, agli arresti ospedalieri. Una richiesta, a parer mio, lecita. Ma un fuoco non è tale se non brucia e a farlo ardere ci ha pensato Asia che ha acceso la miccia prima in rete poi, l’ha oltrepassata. 
Il suo appello di figlia disperata, ha infatti incendiato le pagine del quotidiano Il Mattino al quale lei stessa racconta «Trasportato presso il Pascale di Napoli, giovedì scorso 26 gennaio - racconta la figlia, Asia - è stato rimandato indietro per mancanza di posti. Il che equivale ad una condanna a morte per mio padre. Un'udienza per decidere nuovamente su eventuali arresti domiciliari o almeno ospedalieri, ci sarà il prossimo 6 febbraio. Intanto sono trascorsi mesi senza cure per una patologia gravissima. 
E nel frattempo il male continua a fare scempio di un essere umano». Questa storia, soprattutto nel napoletano, è entrata nella vita di tutti anche di quei politici sempre più sordi che ora, invece, pare abbiano sentito qualcosa. Su questo caso, i radicali presenteranno un’interrogazione parlamentare nei prossimi giorni. 
Tecnicamente, mi spiega l’avvocato Gianluca Arrighi, è il giudice ad avere ampia discrezionalità per l'incompatibilità con il regime carcerario per motivi di salute. 
La mia non è mancanza di fiducia nelle parole dell’avvocato che, oltre ad essere uno dei migliori, è anche un caro amico. La mia è più condivisione del sentire di una figlia, sete di giustizia…quella giustizia a volte è scritta male e fatta peggio. 
Così cerco sul web e mi imbatto in una delle tante sentenze emesse dalla Cassazione che concede i domiciliari a chi è malato di tumore. 
Ricontatto l’avvocato scrittore Arrighi e gli faccio presente la cosa cercando un appiglio, una difesa all’onore e al rispetto di un uomo, della sua malattia e della sua famiglia. 
Ma ancora Arrighi mi conferma quanto precedentemente detto e a questo aggiunge che «nell'ordinamento giuridico italiano i precedenti della cassazione non sono vincolanti, potendo sempre il giudice di merito discostarsene motivando le ragioni per le quali ritiene di non condividere la massima della Suprema corte. Vale quindi ciò che ti ho già detto: in tema di incompatibilità con il regime carcerario dovuto a motivi di salute, decide sempre il giudice caso per caso. Se ci fossero leggi specifiche senza discrezionalità del giudice, il detenuto sarebbe libero. Purtroppo, però, non è così. Mi spiace ». 
E gli credo ancora di più se penso alla storia che l’avvocato racconta in “Vincolo di sangue” in tutte le librerie dal prossimo 14 febbraio. 
E così al detenuto che fino a qualche giorno prima di sapere quanto fosse malato poteva scontare la sua pena a casa succede invece che, appena qualche ora dopo aver saputo di avere un cancro, viene catapultato in un metro quadrato di cella con qualche letto di troppo rispetto a quelli concessi, insomma nemmeno un po’ di privacy per una lacrima. Per questa vicenda, a parer mio –modesto – sono molte le sfaccettature per far appello a quell’unico giudice che può prendere la situazione in mano e decidere della vita (e purtroppo della morte) di un uomo. Lo dice anche la figlia quando si chiede: ma il carcere, è una condanna a morte? Io aggiungerei: il carcere, è un macello? I detenuti, sono animali? Se è vero infatti che qui nessuno è innocente, è vero pure che tra i tutti c’è anche lo Stato che non mantiene “le regole dei regolamenti”. 
Le carceri scoppiano, come le rivolte, e di quella rieducazione che ormai fa solo ridere insieme al regime carcerario, non se ne ha più traccia. Lo hanno ribadito alcuni dei grandi anche ieri durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Orbene. A prescindere dalle “malattie” delle case circondariali, ci si dimentica anche un’altra cosa importante: i suoi abitanti sono si dei delinquenti ma restano pur sempre degli esseri umani. 
Appartengono al regno degli uomini, quelli sbagliati, certo, ma pur sempre uomini che chi più, chi meno, ha capito lo sbaglio ma sta cercando di riparare a degli errori che spesso e purtroppo, gli resteranno impressi come un tatuaggio in volto per tutta la vita. Le celle di tutta Italia scoppiano ma pochissimi sono gli esempi di quei delinquenti che si fanno il carcere che meritano o che semplicemente dovrebbero (sono infiniti invece quelli di chi il carcere non se lo fa proprio e magari viene chiamato anche signore –con la esse maiuscola- mentre continua a delinquere). Molti di meno quelli che uscendo, possono ricominciare da zero: aver saldato il debito, spesso equivale al non averlo mai scontato. 
Massimo Lombardo non sarà sicuramente l’unico uomo detenuto e malato di cancro, ma mi chiedo cosa c’è peggio di un male per scontare una pena? Che sia tu dentro o fuori le sbarre, la tua vita potrebbe avere un tragico destino e adesso non t’importa se troverai ancora un lavoro, se qualcuno ti guarderà come se avessi la lebbra perché sa da dove vieni. 
Adesso, nella cella al freddo di brande e sbarre, per te che hai metabolizzato appena un po’ciò che sta per succederti l’unica cosa che conta oltre alle cure è il calore dei tuoi cari. E’ di un abbraccio piuttosto che una carezza o il semplice silenzio che non ha bisogno di parole, perché in situazioni come queste non servono, che si vuole. E’ doveroso dare le cure necessarie a chi sta male e a chi ha i giorni contati. 
L’ordinamento italiano prevede l’ergastolo non la pena di morte. Elisabetta Zamparutti dei radicali ha depositato un'interrogazione parlamentare a risposta scritta indirizzata al ministro della Giustizia ed a quello della Salute. L’onorevole Zamparutti dopo aver ricordato che «in data 26 gennaio era stato predisposto il trasferimento del detenuto in ospedale per l'inizio del primo ciclo di chemioterapia alla fine del quale sarebbe stato riportato in cella; che neanche questo era stato possibile per mancanza di posti» chiede «come mai non sia stato disposto, come i familiari chiedono da due mesi, un ricovero presso un centro oncologico specializzato per poter intervenire subito a causa dell'estrema aggressività del tumore che nel frattempo ha continuato a crescere». si legge su Il Mattino. 
Nell’interrogazione chiede «cosa si intenda fare ora per evitare che si perda altro tempo per una cura adeguata del male oltre che per evitare che una persona in simili condizioni di salute possa rimanere in carcere , per giunta dopo i gravissimi scompensi che determina la chemioterapia». 
Già, cosa si intende fare?
Noi ci uniamo al coro e chiediamo che quest’uomo non rimanga prigioniero della cella dove è stato rinchiuso; che i volti che gli faranno compagnia non siano quelli che incontra nei cortili durante l’ora d’aria. Non stiamo chiedendo l’annullamento della pena, ma di potersi curare e tornare a casa con la famiglia. 
Di poter essere uomo e non un animale. 
E se è il giudice che deve decidere caso per caso, beh allora non c’importa nemmeno riportare alla luce vecchie sentenze, altre storie, perché, pare non abbiano fatto la differenza se a quest’uomo è stata negata la dignità nelle cure e nella vita. 
Un uomo che ad oggi resta lontano da un letto di ospedale, è un altro caso che ha bisogno di sostegno in questo presente per il futuro. Il passato conta nella misura in cui fa male la sua pena, per il resto, saremo vicini anche alla manifestazione pacifica davanti al carcere di santa Maria Capua a Vetere che Asia e la sua famiglia stanno organizzando per i prossimi giorni. 
Il carcere non è uno strumento di tortura né per i detenuti né per i familiari.
 O almeno così non dovrebbe essere ma a volte è luogo di violenza (il)legittimata e di emarginazione. Un macello, nel più ampio senso della parola.

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