Il Carnevale
11 febbraio 2013 di Dino Licci
“Semel in anno licet insanire” (Una volta all’anno è lecito impazzire)Enrico Murolo: Pulcinella street of Naples (olio su tela)
Con questa breve ma molto incisiva locuzione latina si può sintetizzare il periodo dell’anno che va sotto il nome di “Carnevale”, concetto espresso anche da Sant’Agostino, celebre per le sue accorate confessioni o, con qualche variante, da Orazio che ci racconta come sia dolce impazzire a tempo debito: “Dulce est desipere in loco”. Così gli antichi. Ma anche studiosi moderni del calibro di Renè Guènon c’introducono al concetto di carnevale sottolineando come gli eccessi alimentari, sessuali e comportamentali, cui ci si lascia andare in questo periodo, se limitati nel tempo, costituiscano una valvola di sfogo per un’aggressività troppo a lungo repressa. Freud ci racconta infatti come il nostro subconscio nasconda quella parte istintivamente aggressiva del nostro essere che la coscienza, la cultura e la volontà (il super Io) riescono a dominare e controllare con un certo sforzo. E forse già gli antichi avevano intuito che le cose stavano così, se, in questo breve periodo dell’anno, addirittura i padroni accettavano di buon grado di scambiarsi i ruoli con i servitori, sovvertendo del tutto l’ordine sociale e rendendo in questo modo inoffensive quelle tendenze sovversive che s’intuisce chiaramente esistano in chi deve sopportare da sempre una condizione di sudditanza. Si credeva che lo sfogo, limitato a un breve e ben circostanziato periodo, di questi istinti primordiali, esorcizzasse una vera ribellione anche se a volte la storia c’insegna che proprio questa usanza fu all’origine di rivolte e disordini vari. La liturgia cattolica, pur comprendendo il carnevale, non lo accetta proprio di buon grado ed anzi i tentativi della Chiesa furono nel tempo volti ad allontanare il più possibile gli scherzi carnascialeschi dal mese di Dicembre per non turbare la sacrale atmosfera natalizia. Ma il clima gioioso della festa permane, sia pure in forma ridotta, anche nell’ultimo mese dell’anno con la ricorrenza dei Santi Innocenti e le feste dell’Episcopiello e dell’Asino che si tengono addirittura all’interno delle Chiese. Un altro retaggio rimane nelle rumorose notti di San Silvestro, ma l’inizio del carnevale è stato spostato gradualmente nel tempo dal giorno di santo Stefano fino al 17 Gennaio, festa di San’Antonio abate. La sua fine invece è stata fissata con l’inizio della quaresima. A ROMA, intorno a queste feste, che talvolta assumevano sembianza di cerimonie, sorsero molte leggende, alcune delle quali ci sono state raccontate da Apuleio o da Ovidio e sarebbe per me troppo arduo riportarle qui ma, per coglierne il significato, bisogna ricordare che, nell’antica Roma, l’anno si faceva cominciare col mese di Marzo, mese dedicato a Marte, padre di Romolo e Remo. In suo onore si tenevano delle feste di sapore carnascialesco che slittarono a Febbraio con l’introduzione di questi nuovi mesi e si chiamavano Equiria. Esse consistevano, tra l’altro, nelle corse di cavalli che si tenevano nei pressi del Celio come ci racconta Ovidio nei “Fasti”. Degna di nota poi la leggenda secondo la quale Numa, per conservare uno scudo regalatogli da Giove a protezione dell’Impero Romano, ne fece costruire altri 11 da un fabbro di nome Mamurio Veturio ma, date le calamità che seguirono a questo episodio, lo stesso fabbro fu additato come il responsabile di tali sventure e quindi, ogni metà mese di Marzo, un uomo si mascherava da Mamurio e veniva inseguito da una folla armata di bacchette con cui si colpiva il malcapitato. In effetti Mamurio personificava l’anno vecchio e la data (ricordiamo che l’anno cominciava a Marzo), era stata scelta per scacciare gli ultimi retaggi dell’anno precedente (la prima metà del mese) e potersi finalmente affacciare al nuovo anno con la primavera incombente. Nell’antica Grecia, tra il mese di Febbraio e Marzo, sempre in accordo con l’arrivo della primavera, si celebravano le “antesterie” in onore del dio Dioniso e della durata di tre giorni. Il Dio arrivava dal mare nel secondo giorno di tali festività quando già si erano aperte le brocche ricolme di vino ed appariva trainato da una barca fornita di ruote, col capo ricoperto di grappoli d’uva come nel celebre dipinto del Caravaggio e scortato da due satiri nudi che suonavano il flauto. La processione prevedeva personaggi mascherati, come nei moderni carri, la presenza di un toro da sacrificare ed altri suonatori di flauto. Al culmine della festa si celebrava il ritorno dei morti indispensabili a favorire la fertilità perché è dalla morte che rinasce il germe della vita. In questa concezione è racchiusa l’immortale tematica dell’alternarsi della vita e della morte, dell’eterno ritorno dell’uguale avrebbe detto Nietzsche, con questo Dio che muore e rinasce e che Eraclito chiama Ade quando è nel regno dei morti, Dioniso quando riguadagna il mondo dei vivi. C’è il rito della nostra salentina “caremma” che, morendo durante la quaresima, ci restituisce gli agrumi con cui l’avevamo adornata e c’è forse qualcosa delle religioni orientali con lo Yin e lo Yan, aspetti diversi e contrari di una stessa realtà. E questo carro che trascina il Dio che rinnova il mondo non è forse simile ai carri della Roma imperiale che simboleggiavano il percorso astrale e dei pianeti che si avviavano verso la primavera? Nel “Pervigilium Veneris” di autore anonimo ma di età imperiale c’è racchiusa tutta la poesia della primavera nascente:“Nuova primavera, sì, primavera di canti; in primavera nacque il mondo, in primavera s’accordano gli amori, in primavera si sposano gli uccelli e il bosco scioglie la chioma per le piogge nuziali.”
Giannino Marching: Interludio, 1932, (olio su tela)
Si festeggia la Vita nel suo eterno rinnovarsi al di fuori dello spazio e del tempo!
Se a Dioniso sostituiamo il dio Marduk ci troveremo proiettati nell’antica Babilonia dove questo dio salvatore lottando con il drago, il dio Tiamat, lo vince e lo scaccia consentendo il ritorno della vita. Le cerimonie propiziatrici per il raccolto e la nuova stagione, erano ricche di simboli che si rifacevano al mondo astrale. Secondo le credenze babilonesi infatti, la terra era una copia della realtà che risiedeva nel cielo(una sorta di iperuranio, il mondo delle idee di Platone). Ma per i babilonesi la trasformazione dell’idea astratta in realtà empirica, aggredibile da parte dei nostri sensi, era possibile grazie alla personificazione degli dei. Così Marduk personificava la vita, la rinascita, la vittoria sulla morte. Durante le festività, nei cortei allegorici, non mancavano i carri del Sole e della Luna che, percorrendo la via lattea, dalla parte alta del cielo raggiungevano Babilonia per donarle la primavera. E come nei saturnali romani, questo periodo festivo prevedeva che gli schiavi prendessero il posto dei padroni sapendo bene che il “re del carnevale” era destinato a morire dopo questo breve periodo di sregolatezza che accompagnava il difficile passaggio dal vecchio al nuovo anno. Singolare la rappresentazione medioevale di questo periodo col “passaggio delle acque”. Ci si imbarca nella “nave dei folli (stultifera navis)”per raggiungere la sponda opposta (l’anno nuovo) e, durante la traversata, l’anno vecchio, frantumandosi, fa perdere la propria identità e la pazzia dell’uomo custodita gelosamente nel subconscio (se vogliamo rifarci a Jung), emerge tumultuosamente invertendo i ruoli e gli stessi sessi e da questa danza orgiastica, come da un vaso di Pandora, per un gioco divino propiziatorio, fuoriescono anche i morti che spaventano, aggrediscono o scherzano tra il rumore assordante che ai nostri giorni releghiamo all’ultimo giorno dell’anno. Ma i morti regalano la vita, dal loro disfacimento prenderà nutrimento il nuovo che avanza, rinnova e ristora. Gli attuali carri allegorici hanno per lo più sapore sarcastico o ironico, se si vuole, e riguardano soprattutto il mondo della politica ma ce n’è uno, ad Ivrea che si rifà ad un’antica leggenda che vorrebbe punire un marchese che abusava di tutte le donne del paese avvalendosi dello “Ius primae noctis”. Chissà perché , in ricordo di questo episodio, si è soliti lanciare le arance i testa a tutti i malcapitati che non indossino un berrettino rosso. Sarebbe troppo arduo riportare tutte le usanze legate a questo periodo dell’anno in tutte le regioni del mondo. Ma un punto di unione c’è che le congloba tutte: il rinnovamento simbolico dell’anno solare che ritroviamo anche nei “Canti carnascialeschi di Lorenzo il Magnifico.