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IL CASO DELL’ILVA, di Gianni Duchini

Creato il 13 marzo 2015 da Conflittiestrategie

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IL CASO DELL’ILVA

Il libro “Emilio Riva, L’uomo d’acciaio” scritto dalla moglie  Giovanna Du Lac Capet, ed. Mondadori,2015, è sul filo di una narrazione di una storia umana in grado di conciliare il suo essere un grande imprenditore  a quello di una amatissima e stimabile persona che un abbaio sull’ambiente  volle  interpretare come un volgare distruttore della natura.

Sorvolo sulla personalità  di Emilio Riva cosi come è descritto dalla  moglie  con un  certo  rimpianto sulla sua  scomparsa (30 aprile 2014)  per  rivolgere  l’attenzione sulla districata vicenda  dell’Ilva assunta come emblema nazionale di un complicatissimo caso degenerato  in un fondamentalismo ecologista che è stato in grado di sfociare  in una perdita di ogni asset strategico per l’intera siderurgia  italiana e con essa la scomparsa dei residui  caratteri di industria nazionale.

Tutto ha inizio il 26 luglio 2012 allorché il giudice per le indagini preliminari della procura di Taranto, Patrizia Todisco, emette una ordinanza per la messa sotto sequestro di sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva; per otto dirigenti tra cui Emilio Riva e suo figlio, sacattano gli arresti. Scattano nel frattempo i primi blocchi stradali dei lavoratori dell’Ilva decidendo di scioperare ad oltranza per il timore di perdere il lavoro: “o moriamo di malattia o moriamo di fame”, questo è lo slogan più evocato.

Il 30 luglio è la data con cui i custodi nominati dal gip si presentano allo stabilimento e partono le procedure per il sequestro volute dalla procura. Sono giorni cruciali di follia e disordine in cui sono confermati gli Emilio Riva rappresentava il male assoluto ed in cui “ Il silenzio di Emilio diventa improvvisamente merce di cui sospettare, la sua scelta di parlare pochissimo, o peggio di non parlare affatto, è giudicata come una evidente ammissione di colpa. Tutt’a un tratto, l’industriale schivo ed operoso si è trasformato in un orco che non parla, che in realtà se ne sta zitto chiuso nel suo cinismo, rintanato chissà dove, perché ha solo bisogno del buio per contare i miliardi”.

All’epoca in cui il ministro dell’ambiente Clini (2011-2013)  si occupò del caso Ilva (l’acciaieria di Taranto) varò una legge chiamata AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) istituita dall’Unione Europea, con la quale si fissava l’impatto che doveva avere un acciaieria sull’ambiente, e su quella base il permesso di produrre per Taranto a Partire dal 2014; un impegno troppo severo  e costoso per la  Merkel  che, a suo dire, non adeguerà la siderurgia tedesca non prima del 2018.

Mentre il ministro Clini mette in sicurezza l’Ilva  allo scopo di vincolare i Riva al procedimento della messa in opera, la procura di Taranto ricorre alla Corte Costituzionale e agisce come se i provvedimenti di governo fossero carta straccia, facendo ricorso contro la norma Clini  confermando il sequestro. La procura vuole manifestamente ignorare l’AIA che avrebbe costretto la fabbrica ad uno standard  di emissioni di inquinamento di gran lunga inferiori al diretto concorrente tedesco e conseguentemente procedere ad un suo smantellamento escludendo ogni tentativo di bonifica.

L’Ilva si chiamò Italsider il 10 aprile 1965 con grande orgoglio nazionale e nessuno si occupò di questioni ambientali anche perché l’Italia era costretta ad importare l’acciaio poi prodotto con soddisfazione per l’intera collettività. L’unico neo  furono gli insediamenti abitativi costruiti a ridosso del complesso industriale  che erano destinati ad agevolare la vicinanza delle case al luogo del lavoro e che tanti problemi procurò negli anni a venire.

L’Italsider insieme all’acciaio produsse una montagna di debiti è per questo che lo Stato italiano decise di venderlo fu così che nel 1995 Emilio Riva (morto nel 2014), già industriale di successo dell’acciaio tra i più importanti in Europa la acquisisce. E dopo averla risanata decide di innovarla e renderla pienamente funzionante fino al 2012 anno in cui viene arrestato e la procura dispone il sequestro  dell’area a caldo dell’Ilva.

Un accanimento che ha effetti che ha effetti devastanti su tutta l’area produttiva ed in grado di mettere in ginocchio fornitori, clienti piccole e grandi aziende con un blocco inspiegabile e dalle conseguenze terribili con contratti già firmati e pronti per la consegna ma che la procura decise che tutto doveva essere interrotto. Sull’intero gruppo dell’Ilva caddero numerose denunce per inadempienze contrattuali, sulle aziende in attesa del materiale che mai arrivò, la rovina e la disperazione.

A ciò si aggiunge che la Corte Costituzionale sottolineò che non compete al giudice stabilire il “grado di pericolosità”, ma solo alla legge e alla pubblica amministrazione. Il giudice si deve pertanto adeguare a ciò che prescrive la legge, ne può  agire sulla base di proprie iniziative. A questa mossa della Corte Costituzionale per tutta risposta i giudici di Taranto disposero il sequestro per 8 mila miliardi di tutto lo stabilimento, mettendo definitivamente in ginocchio l’intero stabilimento.

GIANNI DUCHINI, marzo ‘15


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