Nei giorni scorse, il giornalista e linguista Sevan Nişanyan - turco, di origine armene - è stato condannato a 13 mesi e mezzo di prigione per insulti alla religione islamica. Una provocazione dichiarata, la sua: perché in un articolo (scrive abitualmente per Taraf e Agos) in cui parlava di hate speech (parole che incitano all'odio) ha sostenuto che "prendere in giro un condottiero arabo che pretendeva di esser stato in contatto con Allah e di aver ricevuto benefici politici, finanziari e sessuali non è hate speech ".
Lo è, non lo è? In effetti, sono la legge e la giurisprudenza a doverlo stabilire. In ogni caso, la sproporzione tra la presunta "offesa" - in realtà, una provocazione - e la pena decisa è palese. Ci sarà l'appello, vedremo cosa accadrà: ma le autorità turche dovrebbero imparare a distinguere - una volta per tutte - tra l'autentico incitamento all'odio razziale, che va represso anche duramente, e le polemiche degli intellettuali che meritano tutt'al più una serie di pernacchie, ma sicuramente non l'attenzione dei gudici.