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Il caso Spotlight

Creato il 02 marzo 2016 da Nehovistecose

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Regia di Tom McCarthy

con Mark Ruffalo (Michael Rezendes), Michael Keaton (Walter “Robby” Robertson), Rachel McAdams (Sacha Pfeiffer), Liev Schreiber (Marty Baron), John Slattery (Ben Bradlee Jr.), Stanley Tucci (Mitchell Garabedian), Brian d’Arcy James (Matt Carroll), Jamey Sheridan (Jim Sullivan), Billy Crudup (Eric MacLeish), Paul Guilfoyle (Peter Conley), Len Cariou (cardinale Law).

PAESE: USA 2015
GENERE: Drammatico
DURATA: 128′

È la storia vera di un team di giornalisti del Boston Globe che, nei primi anni del 2001, scoprì molti casi di pedofilia – e moltissimi tentativi di copertura – all’interno della diocesi cattolica di Boston, retta dal cardinale Law. Il sensazionale reportage vinse il premio Pulitzer nel 2003.

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Scritto dal regista con Josh Singer, uno strepitoso inno al giornalismo come missione che riprende quella tradizione d’impegno civile che rese grande il cinema americano degli anni ’70 e che, tolti rari casi, sembrava arrivata al capolinea. È il primo film della storia a raccontare gli abusi del clero non come casi isolati (le cosiddette “mele marce”) ma come un sofisticato sistema criminale di corruzione e insabbiamento contraddistinto da un’omertà condivisa e accettata dall’intera piramide gerarchica, ovvero dal prete di strada fino ad arrivare al cardinale e, in alcuni casi, al papa. Per questa ragione è un film profondamente (e coraggiosamente) anticlericale che riflette sulla Chiesa come cosca di potere millenaria: non c’è catarsi, non c’è la solita, ipocrita consolazione secondo cui la Chiesa è uno strumento di bene che eccezionalmente si perde nel male perchè è fatta di uomini: in Spotlight, la Chiesa È il male. Chi attacca il film dicendo che è “povero di stile” è un po’ troppo abituato a sbavare sui tarantinismi formali di oggi,  po forse si è perso una cinquantina d’anni – diciamo dal 1930 al 1980 – di Storia del Cinema: l’epoca in cui si comprese che il cinema per essere grande non aveva bisogno di avere per forza uno stile urlato, ostentato,  sovreccitato. Certi critici dovrebbero riguardarsi i film di Hawks e di Wilder e finalmente constatare che la “trasparenza formale” non è sinonimo di povertà stilistica, quanto l’abilità di raccontare una storia da un punto di vista preciso che può tranquillamente essere quello del rigore formale.

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Quali sono i grandi film hollywoodiani che ancora oggi idolatriamo e consideriamo classici? Quelli in cui lo stile del regista sembra invisibile. Sembra, ma non lo è. Proprio come in Spotlight, tutto girato in interni e con uno stile sobrio e fortemente anti spettacolare, elegante nei continui, evocativi movimenti di macchina in avanti e indietro sui personaggi, molto cinematografico nell’evitare quasi del tutto il primo piano (i film molto parlati come questo, di solito, ne sono colmi), privo di vere scene madri ma strapieno di bellissimi, piccoli “momenti” simbolici che valgono più di mille parole. Non ci sono effetti speciali, non ci sono scontri fisici, non ci sono nemmeno veri e propri cattivi. Perchè McCarthy sceglie di parlare della (terribile) realtà con un film assolutamente realistico, così come realistiche sono le performance degli (straordinari) attori, i dialoghi, gli sviluppi dell’intreccio. Nonostante un minimalismo essenziale che lavora per sottrazione, è un film senza un attimo di tregua, basato su una suspense crescente da thriller e su un gusto del racconto che parte piano e poi decolla. Robusto, coinvolgente, emozionante. E sconvolgente: il cardinale Lew, dopo i fatti narrati nel film, fu trasferito da Boston a Santa Maria Maggiore a Roma, a due passi dal papa.

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Non una sbavatura retorica o sentimentale, non una scena di troppo, non una forzatura in sede di scrittura, non un personaggio che non sia credibile fino in fondo. Nell’essere un omaggio spassionato al giornalismo, è onesto nell’evidenziarne anche alcuni aspetti negativi: come il fatto che all’inizio i giornalisti siano più interessati a battere i concorrenti piuttosto che al bene delle vittime, o che le liste di preti pedofili fossero in redazione da anni senza che nessuno se ne accorgesse o ci prestasse attenzione. Andando controcorrente rispetto al cinema di oggi, McCarthy dirige i suoi attori con grazia sommessa, ne nasconde l’ego di divi famosi tirando fuori il meglio dalle sfumature. Proprio come fa con questa storia, incredibile quanto dolorosamente vera. Michael Keaton, rinato dopo Birdman, è magnifico. Azzeccato il commento musicale di Howard Shore. Indegno scivolone dei titolisti italiani che l’hanno chiamato “Il caso Spotlight” senza accorgersi che Spotlight è il nome del team dei giornalisti, non del caso su cui indagano. Due Oscar, entrambi assolutamente meritati: miglior film e miglior sceneggiatura originale. Bella vittoria per un film costato “appena” 13 milioni di dollari e prodotto da una piccola casa produttrice, la Open Road Films. Qualcuno, nel recensirlo, ha tirato in ballo Tutti gli uomini del Presidente; lo facciamo anche noi, ma solo per dire che Spotlight è più bello. Sincero, rispettoso, onesto. Imperdibile.

Voto



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