Il castello errante di Howl

Creato il 23 novembre 2014 da Jeanjacques

Ci sono amori che non finiscono mai. Uno di questi, per me, è quello verso il sensei Hayao Miyazaki, il genio dell'animazione giapponese (che a quanto pare, i jappi non fanno solo porno e robottoni) che ha saputo tenermi compagnia per tutti quelli che sono stati i bui anni dell'adolescenza. La storia d'amore però era iniziata alle medie quando vidi al cinema La città incantata, film che divenne un mio personalissimo tormentone, tanto da consumare la VHS a forza di rivederlo, costringendomi a comprare il dvd poi. E un tale fervore non denomina una dipendenza totale da quella che è la voglia di raccontare di un maestro assoluto? E infatti non è mai calata, manco adesso che si è ritirato dalle scene dopo l'ultimo lavoro, Si alza il vento. Pensare a lui quindi mi fa pensare al mio passato, a quando ero un patito di animazione giapponese e passavo le giornate a seguire anime. Ma soprattutto, pensare a lui mi fa venire alla memoria quando capii cosa serve, in genere, per creare una bella storia, specie in un panorama come quello dell'animazione nipponica che, dopo le prime esaltanti scoperte, offriva una serie di prodotti altamente similari e ormai privi di quella magia che una storia dovrebbe portarsi dietro. Un po' come questo film. Non il suo migliore, ma comunque fra i primi tre della sua produzione, una produzione già beneficiata da un piccolo numero di capolavori che, a loro modo, hanno saputo fare la storia non solo dell'animazione, ma anche del cinema.

Sophie è una giovane e insicura ragazza che gestisce il negozio di cappelli del defunto padre. Un giorno viene importunata da due soldati ma viene tratta in salvo da Howl, un misterioso mago sul quale circola più di una malelingue, e l'incontro finisce per ammaliarla. Ma quell'evento attira su di lei le attenzioni della Strega delle Lande che, gelosa del fatto che lei abbia avuto un contatto così ravvicinato con Howl, la trasforma in una vecchia. Sophie quindi decide di partire alla ricerca di Howl per far sciogliere l'incantesimo e ritornare come prima. Ma contro di loro ci si mettono anche un mondo in guerra e numerosi intrighi...

Senza che i talebani di Miyazaki mi aggrediscano (sì, quella categoria esiste anche coi grandi autori, non solo con le mode del momento e gli youtuber) diciamolo senza tanti giri di parole: Haru no ugoku shiro è un film per bambini. Non per nulla è tratto da un libro di Dyana Winne Jones, che l'autrice scrisse quando una malattia alla gamba la costrinse a camminare con un bastone come una vecchia, rivolgendolo principalmente a un pubblico infantile. Anzi, la leggenda narra che l'idea le venne quando, nel far visita a una scuola elementare, chiese ai bambini di cosa avrebbero voluto leggere, e uno di essi rispose che gli sarebbe piaciuta una storia su un castello che cammina. Il Maestro quindi ne mantiene lo spunto principale, omette alcuni particolari che erano molto fighi e ne immette altri di altrettanto ganzi, con quel suo stile riconoscibilissimo e tutta la poetica tipica del suo stile. Quindi sì, il film è rivolto principalmente al pubblico dei più piccoli, ma rispetta quella che è la regola basilare della narrazione. Ovvero, accontentare tutti. Un narratore, infatti, di solito cerca di rivolgersi a un pubblico specifico, che in questo caso possono essere gli infanti che, in una storia che vede coinvolte streghe, magie e maledizioni troveranno pane per i loro denti. Un autore bravo invece, oltre che al realizzare un qualcosa per un certo target, riesce anche a metterci degli spunti di riflessione che gli stessi possono affrontare senza problemi. Un grande narratore però può realizzare ugualmente a fare un film per bambini, ma mettendoci fra le righe tante di quelle tematiche da riuscire a coinvolgere soprattutto gli adulti, dando un doppio livello di lettura. Chi vuole, in questo caso, può concentrarsi unicamente sulla storia e sui disegni puccipucci, mentre chi ama stringere gli occhi per cercare di vedere più lontano si accorgerà della vera grandezza di questo film. Un po' come succede col fumetto di Watchmen (e in parte col film che ne hanno tratto): un certo tipo di pubblico si godrà la storia dell'indagine e dei supereroi, mentre i più ardimentosi possono cimentarsi in tutte le pippate mentali che sir Alan Moore ci ha messo in mezzo. Cosa offre, quindi, questo film di così memorabile? Posso dire senza problemi di sorta che tal anime non è altro che un piccolo trattato sul crescere e sul maturare. Grossomodo è quello che fanno tutti i personaggi, a cominciare dalla protagonista. Sophie è una ragazza insicura, che non sa valorizzarsi e non comprende realmente quanto valga; Howl invece è un tipetto abbastanza irresponsabile, non un cattivo ragazzo, ma comunque uno che non vuole obblighi e vive in nome di una libertà che, a conti fatti, manco esiste. Perché cosa te ne fai della libertà quando non hai uno scopo? Poi c'è di mezzo la guerra, un tema quasi onnipresente nelle opere di Miyazaki e che, forse, simboleggia proprio le difficoltà che troviamo nel crescere di tutti i giorni - ma che non perde comunque il suo discorso antimilitarista che ne sta alla base. Com'è possibile quindi crescere in un contesto simile, dove i conflitti costringono a morire giovani e, quindi, a non crescere mai del tutto, magari trasformando in mostri, come succede ai seguaci di alcune streghe? Forse abbandonando proprio quella libertà alla quale ambivamo così tanto, magari facendolo per amore. E' questo il tema di base di questo bellissimo film, che pur trattenendosi coi melodrammi, imbastisce uno scenario coerente nella sua natura favolistica ma ugualmente crudele - è sempre di guerra che si parla, in fondo, e lo si fa col dovuto rispetto. Libertà, così come amore e guerra, è solo una parola. E le parole alla fine hanno un determinato potere, siamo noi che dobbiamo porre una versione definitiva coi fatti. Qui lo si fa col sacrificio, un pensiero tipicamente orientale nonostante l'ambientazione viennese-steampunk che ne fa da contorno, donando ai propri personaggi quella che è la vera libertà: non quella dettata da uno status d'apparenza, ma quella che sentiamo veramente nostra. E nonostante un ingarbugliamento finale dettato da una vaga voglia di strafare - ok, c'era davvero bisogno di quel «Ci rivedremo nel futuro»? - il film scorre che è una meraviglia, affascina e commuove. E lo fa con tutti, grandi e piccini che siano. Perché il buon Hayao parla un linguaggio universale.

L'ennesimo capolavoro regalataci da una delle più grandi menti del nostro secolo, uno dinanzi al quale pure un altro maestro nipponico, Akira Kurosawa, si sentiva un novellino - parole sue.


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