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Il catalogo delle distanze attese. Su Amarore di Alessandro Ghignoli

Creato il 08 luglio 2012 da Viadellebelledonne

Una nota di lettura su Amarore di Alessandro Ghignoli, Kolibris edizioni

di Viviana Scarinci

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Il catalogo delle distanze attese. Su Amarore di Alessandro Ghignoli
Cosa può realmente la poesia? Cosa accade all’illusione se chi scrive poesia rifugia da ogni forma del creduto, abbandona ogni storia “saputa” che gli garantisca una qualsiasi consapevole identità, partendo da una sua inamovibile quanto innata, e personale, piccola verità (B. Cepollaro) (1)? Nella lettura di Amarore l’autore è come se toccasse, capitolo dopo capitolo, una sorta di stazione progressiva di compromesso con il “reale”, sulla base di un personalissimo quanto inamovibile intendimento identitario. Quando parlo di identità però, non sono certa che il poeta parta da un desiderio di ricerca della propria, pur costituendo ciò che comunemente viene chiamata identità parte indelebile della sua cifra. Molto sotto, molto dentro, quella variabile inamovibile che viene chiamata identità, se il poeta ha lavorato bene, non gli appartiene, non la desidera, la riconosce progressivamente incapace di una vera enunciazione dell’Io, in una sorta di tormentosa specularità, pacificata a tratti solo dalla poesia. Perché è solo l’Io che pro-nuncia (da nuncius avviso, novella) un’identità altra e fuori di sé, attraverso una lingua impastata di tutto il suo: saliva, dialetto, latte di madre e merda, eppure pronunciate altro da sé.

Amarore si compone di tre sezioni, la prima è costituita da un Io che si rivolge al suo , la seconda da un Io che si rivolge a un tu, la terza da un Io volto finalmente a un noi. Ma ciò che accomuna tutte e tre le sezioni è il sentimento della separazione che è la vera “essenza” di questo rivolgersi.

Il predicato, praedicatum ossia ciò che viene affermato, è un elemento della frase che definisce meglio il soggetto. Di conseguenza il predicato nominale ad esempio, dato il fatto che introduce un modo di essere, ha sempre come ausiliare il verbo essere. Ma in senso strettamente teorico, se una predicazione attiene, nei confronti di una distanza, a una rinuncia o a uno stato di sospensione, come si definisce attivamente l’essere? Nella poesia di Alessandro Ghignoli, lo si definisce forse meglio nella pausa che detiene il distacco e insieme l’immobilità necessari per una presa di coscienza così vicina all’oggetto del guardare, che vi rinuncia la dialettica, in favore di una sospensione talmente collusa a quello, da svuotarlo anche del tempo che lo muta. In Predicamento di me la prima delle tre parti in cui è diviso il libro, il sentimento della distanza è una sorta di pietra di paragone. Un assunto la cui intensità marca gli oggetti del dire “frontalmente”, li consegna al proprio e all’improprio a secondo dal grado di appartenenza che assume in chi guarda la cosa, intendendo più valido della materia, il sentimento di quella. Ma questa distanza è pure uno spazio elusivo, talvolta colmo, fervido e quasi mai veramente enunciabile, se non per asserzioni cariche di pause, che simulano il silenzio. Ghignoli, a tratti, sembra dover segnare col verso, l’istante esatto e il dove si collochi il silenzio autoimposto a una mente che vive questo genere di separazione. La separazione che la distanza conoscitiva, e le pause tra i silenzi, esprimono. La preziosità del linguaggio utilizzato in Amarore a tal fine, a una lettura superficiale, potrebbe essere forviante. E’ forviante l’impegno richiesto nell’ascolto di questa musica silenziosa, perché mina la comprensione di un senso molto bene definito, che pure c’è: ossia questo coniugare poeticamente la propria identità alla realtà, coniugazione che inoltre è anche “mobile”, e progressivamente, accade pagina dopo pagina. La cosa più vera e meno facile da pensare, è che in presenza di questo genere di sospensione conoscitiva, si stagli un profilo vivente, osservatorio e confino di uno stato solitario in medias res, portatore di una poesia che in potenza articola contatti provvisori col mondo per mezzo delle memorie semantiche della sua storia cromosomica e infusa. Come se entrambi questi panorami: origine e esperienza, intricassero l’attraversamento di una stessa selva

io pesarese toscano senza più neutri
latini di presente in iberico stare
dentro l’attesa distesa delle ore
spese ai contorni agli accumuli
all’avviso di un arrivo d’incontro
qui condotto sono sul fianco
sulla caduta chino al probabile
al cercare verso di una casa il paese (p.12)

Può esistere quindi un evento che attua la possibilità di una compenetrazione tra il “reale” e l’identità del poeta, ma esiste pure, e la poesia di Ghignoli in Amarore lo conferma, la totale inestinguibilità di una postura identitaria divelta dalle cose, in una sottrazione giustificata da un arbitrio efferente che nella sospensione trova una sua dolente e controversa ragione di essere-con. E questo al solo scopo di conoscere intimamente ciò da cui si separa. In queste poesie la variabile di questa distanza è lo sguardo, la misurazione che collega la soggettività al resto attraverso una carica emotiva mediata da una stratificazione semantica vissuta come un’elargizione creaturale, che a prescindere dalla sue filiazioni polimorfiche, presiede poeticamente l’apice della capacità conoscitiva di chi la pronuncia. Ma cosa accadrebbe nel caso in cui l’incontro tra il poeta e ciò che chiamiamo realtà, comprendesse soltanto due termini di esplicita negazione come “rinuncia” e “sospensione”? Partendo da una stessa fissità nei confronti del reale, infatti, si può-non, sia nel senso del mai di chi ha rinunciato, sia nel senso del sempre che garantisce chi si è sospeso. E se questa ipotesi, nel caso di Ghignoli, si giocasse davvero a ogni verso, la domanda sarebbe: cosa può realmente la sua poesia? Come scrive Giorgio Agamben “È venuto il momento di interrogare più da vicino la relazione tra potenza e impotenza, tra il potere e il poter non. Come può, infatti, una potenza passare all’atto, se ogni potenza è già sempre potenza di non passare all’atto? E come possiamo passare all’atto della potenza-di-non? Poiché l’atto della potenza di suonare il piano, è certamente per il pianista, l’esecuzione di un pezzo di pianoforte; ma quale sarà per lui l’atto della sua potenza di non suonare? E che cosa avviene di questa potenza di non suonare nel momento in cui egli comincia a suonare?”(2)

Nella prima parte del libro, dove la realtà è in preda al rapporto con un Io che la risolve attraverso una predicazione rivolta a se stesso, la relatività del dettato, parrebbe in apparenza approdare la vacuità e la distanza eludere ogni possibilità di contatto. Ma è proprio la rottura che stabilisce questo autismo a indicare l’intensità necessaria a tutto ciò che segue. Il primo contatto da cui si prende distanza mediante la sospensione, non è quello con l’altro, con il “fuori” o con le cose, ma con se stessi. Sul finire della prima parte la vera osservanza, tratta una specularità fondamentale, il numero primo di tutte le distanze, quella da se stessi percepiti come altro, attraversando l’autentico dolore di una separazione da un sé inconoscibile che detiene l’incognita suprema. E’ questo stato di cose, in ultima analisi, che mi pare richieda verso tutto il resto, la medesima sospensione, che tuttavia somiglia prepotentemente al grado più profondo di un certo tipo di umiltà. Solo così è possibile un barlume di conoscenza, finalmente eluso il “creduto di sapere”. Una conoscenza che inizi dall’amore per la propria incognita e poi da quello, all’altro da sé, con lo stesso movimento, cioè come la forma d’ogni fine nell’amore. (p.18)

delle infinite volte a me dicendomi
di parlare l’italiano senza accento
e lasciare il dialetto da me usato
soggiogato da io al mio volere
creduto di saperne di lettere di plurali
di subientivo e gerundio e coniunzioni
e tutti i resti d’avverbi che di mia vita
mi feci in costruzione o mi disfeci (p.11)

“il creduto di sapere” è una delle sovrastrutture che la parola posta a questa distanza riesce a relativizzare. Poste a una lontananza desiderante, le immaginazioni prendono la misura archetipica del portatore che non sa altro sé che quello sperduto della sua origine e con quella, davvero mondata dal creduto, conosce. E realizza, a volte partendo, come nel caso di Ghignoli, dall’istinto linguistico, dal dialetto madre prima che dalla lingua, prima che le imposizioni al discente cancellino il lungo antecedente l’apprendistato, la dinamica della prima descrizione che l’occhio infante fa a se stesso.

In Tristizia, la seconda parte di Amarore, è l’assente, un tu invisibile a creare l’oggetto del dialogo, rendendo ancora più sottile la qualità esperita in questa relazione, che come s’è detto, pone la misurazione delle distanze, tra i primi agenti conoscitivi. La presenza dell’assente in poesia è uno degli ossimori più frequentati. Ma quando l’assente si lega anche al lutto della sua perdita è molto più difficile proferire la parola che asserisca quanto di cocente, il lutto compia più o meno impercettibilmente sulla coloritura del vissuto. Come detenga un’atmosfera limbica, la cui gamma di possibilità viri verso l’omogeneità di un tracciato sottacente ogni vividezza

l’inizio di questa tristizia di core e d’amistà
tra spinte e segnali a far di me di te
un poco niente un corpo
non più del far delle cose (p.27)

il poeta rivive la morte da vivente, introiettandone quello stato in quasi perfetta coscienza. Il poeta e l’assente non stanno nel far delle cose. E ciò senza l’impostura di un partito preso che segnali il lutto agli altri, ma semplicemente attraversando un tempo limaccioso che denuncia soltanto la propria fragilità

mi sento fragile di vita come la dubitazione
di ciò che accadde come l’infimo veleno
dell’annuncio o della pietade (p.28)

su questo fondale torbido e saturo di rischi inavvertiti, il ritardo delle immaginazioni provoca una sorta di fatica che riduce al silenzio, al niente del vuoto, all’intendere ogni possibile sapere solo come il frutto di una di noi storia disattenta (p.30), una confluenza quasi inavvertita di quella naturale sospensione che si riversa nella rinuncia, nell’aderenza allucinata che la morte incute ai viventi per troppa vicinanza. Eppure

eppure il non credere all’assenza
alla mancanza a questo star qui senza
non pensiamo possibile più il possibile
il trasfigurarsi delle cose intorno il mancare
l’appuntamento e avvegna che la tua imagine
in una notte di sogno di spavento
si faccia apparizione allora in quello caso
nello specifico di un’arte di rettorica
mi sopraggiunga per aiutare lo mio risveglio
alla realtà al giorno per giorno
all’immondo modo della verità del mondo (p.31)

quindi è possibile una sorta di nuovo inizio cui la bifrontalità del lutto può condurre. Giano bifronte dal latino Ianus, è il dio degli inizi, materiali e immateriali, ed è una delle divinità italiche tra le più antiche e più importanti. Gli antichi mettevano il nome del dio in relazione al movimento: Macrobio e Cicerone lo facevano derivare dal verbo ire “andare”, perché secondo Macrobio “il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna”. Gli studiosi moderni hanno confermato questa relazione stabilendo una derivazione dal termine ianua, “porta” (3). Le ultime tre poesie che chiudono la seconda parte del libro intitolata Tristizia, sono la puntuale testimonianza di tre aperture attraverso cui ha luogo un nuovo inizio: L’erratica forsenaria (p. 39) che legifera analogicamente il mondo emotivo del poeta, e quel mondo reale da cui il poeta si estranea per troppa vicinanza, sono finalmente nominati; il parlare fabuloso dei farsanti (p.40) che sono i massimi detentori dell’ascolto quando i tempi si fanno bruti, è smascherato; il rischio di comunque esserci, per chi come l’uomo nel senso più profondo e meno illusorio del termine è fabbro di sé (p.41), è accettato.

L’ultima parte del libro, Amaritudine culmina nell’enunciazione del delicatissimo rapporto tra parola poetica e atto. Inesorabilmente Ghignoli svelle dal tempo il senso della parola che intesa in questa totale nudità, frammischia il suo potenziale onirico e divinatorio alla grammatura specifica del reale tanto che i versi dichiarano esattamente non la teoria ma il dolentissimo esito di questo strappo in cui la parola precede e determina visione, atto, relazioni in un modo così radicale da non lasciare alcuno spazio all’illusione e alla consolazione

denso nello stretto simbolo il tratto
di un susseguirsi tra il presente del momento
il ritratto il resto magari niente (p.50)

cercare il silenzio a questo punto è l’esatto contrario della rinuncia, è forse assecondare quella sospensione carica che hanno gli oggetti del mondo compresi nella propria componente animistica, che significa la loro relazione silenziosa con tutto e tutti. Questa interrelazione alcuni la chiamano destino, Antonio Porta la chiamava gorgo, volendo significare forse la storia nel suo terrifico disgiungimento dalla necessità che ognuno vorrebbe imputare all’inesorabilità di certe circostanze. Ghignoli abbraccia per intero, da poeta, la caduta dell’illusione di ogni significato salvo che sottoforma di potenziale che racchiude in sé la parola taciuta, non ancora detta ma pronta a dirsi e con ciò a determinare in potenza tutti gli atti che ne conseguiranno. A mio avviso Alessandro Ghignoli in Amarore avvera un’operazione poetica notevolissima quanto ancora non praticata, la messa in scena in poesia della circostanza unisona dell’esistere precisando progressivamente la sua esatta qualità. Cosa che per un poeta è una pietra miliare, dato il dubbio endemico che sempre gli significa il vivere. Ghignoli lo fa in poesia, senza nessuna intercessione che ne mitighi o ne mistifichi immaginosamente l’ordito su un piano aperto che incrocia passato e futuro esattamente nel momento presente di ogni singolo verso. Così facendo di poesia in poesia, il poeta agisce sul lettore compiendo lo stesso esperimento che su se stesso, descrivendo cioè per entrambi un percorso spazio temporale che al termine del libro segnala un approdo importantissimo, quello di essere finalmente pronti a dire, cioè atti al discorso

atto al discorso senza rancore con rigore
ché nel fuori intorno fuori viene il proporre
la mia questione d’interno all’igiene della mente
a la giusta gentilezza per non sofferire lo difetto
per non vivere ucciso (p.61)

Perché non si viva uccisi insomma, per non cedere al balbettio di questo continuo dire, un poeta non può far altro che, avvertendo l’occasione di ognuna potenza, e solo in quel caso, dirla.

___

Note
1. http://poesiadafare.wordpress.com/2012/05/16/la-lezione-di-elio-pagliarani/
2. La potenza del pensiero, Giorgio Agamben, Neri Pozzi, 2005, p. 292
3. http://it.wikipedia.org/wiki/Giano_%28divinit%C3%A0%29

Il catalogo delle distanze attese. Su Amarore di Alessandro Ghignoli
Alessandro Ghignoli nasce a Pesaro il 19 dicembre 1967. Ha pubblicato di poesia: La prossima impronta (Gazebo, Firenze, 1999), Fabulosi parlari (ibid., 2006) e Amarore (Kolibris, Bologna, 2009) Premio Lorenzo Montano 2010; di prosa: Silenzio rosso (Via del Vento, Pistoia, 2003). È autore di vari volumi critici, tra cui La notte dell’assedio. Quattro poeti spagnoli contemporanei (Orizzonti Meridionali, Cosenza, 2005), Un diálogo transpoético. Confluencias entre poesía española e italiana (1939-1989) (Academia del Hispanismo, Vigo, 2009), Transmediazioni. Lingua e Poesia (Kolibris, Bologna, 2011) e (con Llanos Gómez) Futurismo. La explosión de la vanguardia (Vaso Roto, Madrid, 2011). Ha inoltre curato numerose edizioni critiche su autori spagnoli, portoghesi e ispanoamericani all’italiano, fra cui José Hierro, Luis García Montero, Camilo Pessanha, Hugo Mujica, Juan Gelman. Suoi scritti sono stati tradotti in polacco, spagnolo e tedesco. Redattore della rivista “L’area di Broca”, è codirettore della collana “Quaderni di poesia europea” (Orizzonti Meridionali, Cosenza) e vicedirettore del programma radiofonico “Sala de Ensayo” (Radio Círculo de Bellas Artes, Madrid). È docente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Malaga.



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