Come osserva adeguatamente anche Lidia De Federicis nella nota al libro, lo svolgimento indiziario dei racconti della Pennavaja “tiene il lettore abilmente avvinto per cenni e lo guida allo sconcerto finale.” Lo smarrimento finale a cui si fa cenno è preparato con cura da dialoghi credibili e descrizioni accurate di azioni e gesti, perfino di parole, perché la parola, specialmente nei momenti in cui le donne e gli uomini si trovano a dover mettere a confronto la propria natura più autenticamente umana con le pressioni dell’assurdo e del destino, è essa stesso gesto, azione di difesa, atto di esistenza e resistenza, nonostante tutto.
Lo stile in quanto modo del pensare e dell’immaginare, è la sintesi proposta dalla De Federicis per definire sia questo specifico libro, sia, in senso più ampio e generale, l’approccio di Cristina Pennavaja con la narrativa. Leggendo i racconti si comprende gradualmente la veridicità di questa descrizione e l’efficacia dell’accostamento. L’incalzare del ritmo, il crescendo, ma anche l’alternanza di tempi moderati e meditativi con passaggi più aspri vengono accompagnati e sottolineati da coloriture e accenti, citazioni di brani in varie lingue, lettere riportare come documenti di sentimenti trasmessi senza mediazione, senza filtro alcuno. La riflessione è tra le righe, tagliente, spesso priva di sconti.
Ma la parola, il racconto, la testimonianza, è sempre di per sé fonte di resistenza, è giusto ribadirlo. Come è opportuno sottolineare il ruolo non casuale ma fortemente simbolico della poesia posta ad esergo al libro, quella di Fernanda Romagnoli, dal titolo “Capro espiatorio”. Nei versi finali, come nei racconti di questo libro, si descrive l’uomo, la sorte, il destino, “già caduto sul fianco/ otre di sangue/ già mezzo vuoto”, eppure, a dispetto di tutto, c’è spazio e fiato per esclamare: “come scalci ancora/ forte, mia vita”. IM