IL CELESTE SCOLARO DAGLI OCCHI DI CIELO | Emilio Jona racconta la storia di Federico Almansi | Il giovane poeta amato da Umberto Saba

Creato il 20 giugno 2015 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

di Massimiliano Sardina

Tra biografia documentale e trasposizione romanza Emilio Jona ricostruisce la tormentata vicenda umana e poetica di Federico Almansi, il garçon maudit amato da Umberto Saba. Del bel Federico, ribattezzato da Saba “occhi di cielo”, non si è conservata neanche una fotografia, quasi che la sua abbagliante bellezza di biondo angelo efebico – una bellezza purtroppo minata dal demone latente della schizofrenia – appartenesse più al mito (e al suo archetipo) che al mondo reale. Tracce labili di quest’animo inquieto sono sopravvissute in pochi sparuti scritti, in una piccola rosa di accorate poesie e in una manciata di lettere, forse troppo poco per poterne restituire compiutamente la nitidezza del profilo; ma certo l’eco più profonda risuona nel cuore sofferto e innamorato della poesia sabiana: «Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce. Morire è nulla; perderti è difficile.» Cucciolo d’uomo alla disperata ricerca di un dio protettore, di una guida gentile, aspirante poeta e prosatore, da allievo si legherà al Maestro con crescente amoroso trasporto, e ne sortirà fin da subito un sodalizio insieme delicato e complesso, un rapporto sempre filtrato e sublimato dall’ordito poetico.

Saba conosce Federico attraverso il padre Emanuele Almansi, che a Padova lavorava come libraio antiquario; da Trieste (dove gestiva la celebre libreria antiquaria di via San Nicolò 30) il poeta scendeva a Padova a più riprese e, nel corso degli anni ’30, fu ospite per lunghi soggiorni nell’appartamento degli Almansi. Tra Saba, già in là con gli anni, e il tredicenne Federico cominciano presto “le passeggiate lungo le amene rive del Bacchiglione”. «Un dio, maestro, ti vedevo in terra. Buona voce punivi con amore. Insegnavi speranze e beni rari. Fioriva la mia fresca età alla tua, stanca, al declino. E nella chiara estate a te venivo lungo il fiume, dove di tante cose mi parlavi ignote.» E ancora: «Ripenso al male che ci unì feroce. A quando ti ho veduto, malato, nel lettuccio di ferro abbandonato, e come un buon dio mi hai salvato. Un casto bacio mi davi all’arrivo, e seduto vicino mi lodavi, univi la tua alla mia mano scarna. La buona madre guardava gelosa.» La presenza di Federico (luminosa, totalizzante e di “disumana tenerezza”) pervade la poesia sabiana, più o meno esplicitamente, dal 1933 agli anni del dopoguerra. «…Ma che tu esista è un prodigio, e il pensiero di te, che tu viva, mi consola di tutto, mi riempie di una tenerezza quasi disumana. Tu, dei miei giovani amici il più caro, tu quasi figlio per me, io quasi madre, tu nelle tante vesti che ti ho dato, Narciso, Ganimede, Telemaco che guarda il mare e attende l’arrivo di Ulisse.»

Sono anni difficili. Nel 1938 comincia in Italia la persecuzione degli ebrei e Federico (che era ebreo) venne cacciato da tutte le scuole del regno; a Padova riuscì a frequentare una scuola ebraica, ma non trovò un ambiente accogliente capace di comprendere e tollerare la sua personalità così spiccatamente bislacca, indolente, refrattaria alle regole. Durante gli anni della guerra Federico si lega al coetaneo Alfredo Segre (che poi anagrammerà in un suo scritto in Doalfre Grese), un amico del cuore di temperamento opposto al suo; di Federico Alfredo racconta che era un tipo «pensieroso e solitario, viveva a disagio lo stare con gli altri ed era apprezzato da pochi, parlava molto di Saba, che era il suo dio, e di psicoanalisi…» Quando gli Almansi si trasferirono a Milano (in un appartamento in via Andrea Doria) Saba si unì alla famiglia dal ’45 al ’48. Il rapporto tra i due si strinse ulteriormente, nell’esercizio della poesia come in quello della quotidianità. Emanuele Almansi, pur sentendosi spodestato (visto il ruolo che Saba rivestiva per il figlio), sopportava tacitamente. Le notizie di quegli anni sono davvero frammentarie, e non è stato facile per Jona riempire i vuoti e concatenare gli eventi (vero è che Il celeste scolaro vuol essere più un romanzo che una biografia, quindi la creatività narrativa ha licenza di intervenire laddove latita la testimonianza documentale).

«Sono passati troppi anni dalla sua morte – spiega Jona, che conobbe personalmente Federico agli inizi degli anni ’50 e vi rimase in contatto (epistolare) fino al 1975, tre anni prima della morte – e ci si può chiedere se abbia ancora un senso scrivere di lui o se si tratti solo di una sfida, di un capriccio, o di un’intenzione peccaminosa, riportare alla luce una storia finita su cui sarebbe forse meglio tacere e se valga la pena riesumare testi sepolti che non ci appartengono, quasi volessimo impossessarcene e farli rivivere altrimenti da quello che sono stati. E a questo dubbio si accompagna e si oppone un desiderio di segno opposto, da molti anni represso o accantonato, quello di essere di quella storia il testimone, il messaggero e il narratore. (…) Non ricordo come cominciò la nostra amicizia, cosa avvenne esattamente tra di noi, quale fu la reazione chimica che ci coinvolse e ci aprì l’uno all’altro: cominciammo a scambiarci poesie, racconti e a discutere le sorti del mondo.» Jona fu testimone di quel “distaccarsi sognante” che segnò gli inizi dell’avaria psichica di Federico. L’incrinatura, l’ombra, la prepotenza del tarlo infestante erano penetrate tra le righe, già sfocate, dei versi: «…filo di luna, lenta accompagnatrice d’amanti, morbida ombra, soave mietitrice di pazzia, in alto tesse una celeste trama d’amore.» Jona riporta anche un aneddoto significativo, quando Federico aveva appena compiuto ventisei anni: «Un giorno eravamo nella biblioteca e compitavamo tra il testo e il dizionario di francese la traduzione di una pagina di Une saison en Enfer, quando Federico, alzando gli occhi alla finestra e guardando al di là verso le montagne, vide un paggio col cappello piumato sorridergli e mandargli dei baci. Rimase estasiato a osservarlo, poi mormorò parole incomprensibili e gli restituì, soffiati dal palmo della mano, i suoi baci.» Dunque il contatto con la realtà era già perduto, stabilito per un tramite incomprensibile, come avviene nella poesia.

Il celeste scolaro Federico Almansi emerge dall’oblio insieme alle pagine di un romanzetto d’esordio, Una favola di questi tempi, dove si narra di un bell’angelo caduto sulla Terra, un angelo ripetutamente punito per aver amato prima un maestro, poi un coetaneo, poi una donna, un angelo che sorvola le frontiere dei sessi e delle età, alla ricerca di un’identità originaria e perduta. Nel ’48 Saba firmò anche una breve prefazione per la sua prima raccolta di versi – Jona osserva che l’amore per Federico gli aveva offuscato la lucidità del giudizio – ripubblicata nel 2015 da Sedizioni con il titolo Attesa. Nel 1948, dopo avvisaglie alterne e crisi sporadiche, Federico comincia a precipitare a peso morto nell’imbuto della schizofrenia. Il gene malsano, forse ereditato dall’asse paterno, intacca gradualmente la sua lucidità, trovando terreno fertile su una personalità problematica, abulica, ribelle, narcisistica, settoriale negli interessi, in un temperamento saturnino e umorale. Il demone della follia trascina Federico in una dimensione psichica parallela, che con l’andare degli anni si distanzia sempre di più dalla contingenza reale. «…Federico aveva momenti di intelligenza maestosa, altri di intima grazia e di dignità compassionevole, ma era così indifeso, (…) si era aperto in lui uno sconfinato angolo buio della mente.» Il triste va e vieni dalle istituzioni manicomiali e dagli ospedali psichiatrici (di Pavia, di Baggio, di Villa Fiorita) non fece che acuire il suo disagio (non mancarono maldestri tentativi di suicidio, e persino una tentata evirazione). L’angelo curvò verso un progressivo impietoso abbruttimento, schiavo di un torpore inguaribile e di un delirio devastante.

Ne Il celeste scolaro Emilio Jona si sofferma molto anche sulla figura di Emanuele Almansi, il padre di Federico, anch’egli sfiorato (per via paterna) dall’ala della follia. Incapace di accettare la crescente sofferenza del figlio, la notte del 16 maggio 1952 arriva a sparargli un colpo alla testa. Federico si salva per un soffio, e il padre, dopo tre anni di galera, esce per amnistia. Il tentato omicidio non fu che un’eutanasia d’amore. Federico sopravvivrà alla sua follia fino al 1978; vivrà prevalentemente fuori dai manicomi, ma già dalla metà degli anni ’50 diventerà qualcosa di diverso dal bell’efebo con gli occhi di cielo. La malattia mentale, straniante e pervasiva, lo allontanerà da tutto e tutti, dal proprio sé originario (il jeune poète in erba innamorato di Rimbaud) e da quell’altro sé che soleva riflettersi, civettuolo, nei lusinghieri disarmati versi della poesia sabiana. Al di là della personale vicenda umana, circoscritta nei luoghi e nel tempo, il rapporto tra Umberto Saba e Federico Almansi rientra a pieno diritto nell’archetipo ellenico: da un lato il saggio senex e dall’altro l’idolino giovanetto, ossia la contemplazione della bellezza e la bellezza stessa. Un’entità terza si frappone troppo presto e troppo brutalmente tra il vecchio e il giovane, ed è la vita (travestita da follia, da quell’impossibilità che è propria della vita stessa). Obliato Saba, tralasciato, dimenticato, come se non fosse mai esistito, deposta la venustà celeste e gli ultimi barlumi di rigore razionale, Federico si consegnò anima e corpo a quel destino che la malattia mentale aveva tracciato per lui.

Questa storia (che per raccontarsi non poteva che farsi romanzo), ricostruita faticosamente con ogni mezzo – attingendo a manoscritti, lettere, poesie, articoli di giornale, trascrizioni di testimonianze, atti processuali e ricordi personali – ha il pregio e il merito di riconsegnare alla memoria del tempo, più di ogni altra cosa, una bellissima storia d’amore.

Massimiliano Sardina


Cover Amedit n° 23 – Giugno 2015 “Il ragazzo dagli occhi di cielo” by Iano

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