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Il Cerchio : un racconto di Domenico Caringella

Da Wsf

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“The screen door slams, Mary’s dress waves

 Like a vision she dances across the porch as the radio plays…” 

(Thunder Road, Bruce Springsteen)

Gli si mostrò per quello che era. Un cerchio.

Un cerchio perfetto, aggiunse dentro di sé.

L’asfalto e le miglia che scorrevano sotto l’ultimo camion che l’aveva raccattato, il verde che si faceva deserto, i cartelli con le indicazioni dai nomi che non segnalavano solo posti ma riportavano anche sensazioni e fatti, erano stati solo segni, presagi, avvertimenti; il paese, identico a come l’aveva lasciato, una promessa. E il 731 di Lancaster Drive la luce, la fine del cammino, l’ultimo tratto del compasso che incontrava il primo.

La sabbia nella clessidra ricominciava a scorrere esattamente dietro quel cancello, lungo il percorso ad ostacoli che portava sino alla porta di ingresso: l’erba malata del giardino, il vecchio pneumatico ancora appeso con una catena all’albero, i tre scalini che issavano sul porticato.

Ritrovarsi lì era stata una specie di sorpresa. E anche un obbligo, un impegno rispettato.

Cal sedette sulla panchina che si trovata dall’altra parte della strada, sotto il vecchio albero, con il cappello sulle ginocchia e Bogart accucciato ai suoi piedi stanchi come le sue scarpe squinternate. Trascorse la prima ora a riappropriarsi dell’immagine di quella che era stata casa sua e del tempo che era gli sfuggito di mano. Restò; e attese.

Quando la donna uscì sul porticato, ebbe la visione della sua veste estiva, semplice, celeste, che ondeggiava e del movimento lento, distratto che fece il suo corpo mentre si piegava a raccogliere il giornale e un cuscino che il vento doveva aver fatto cadere dal dondolo; dovette sembrargli una danza, perché Cal accennò un sorriso. Delle due cose a cui pensò, la prima fu Springsteen che cantava Thunder Road; la seconda che non bastavano le ciocche che adesso non mandavano più magnifici riflessi di rame e di tramonti appena nati e il corpo più pesante a confonderlo. Era lei, proprio lei. Come l’ultima volta. O quasi.

Lesse nei gesti di Becky e in quel modo che gli parve nuovo di passarsi la mano tra i capelli, stanchezza o solitudine. Doveva essersi rassegnata da un bel pezzo a fare a meno di lui, della sua gentilezza a volte inopportuna, dei suoi slanci inventati sul momento che attentavano alla noia e al definitivo, ma sapeva di essere ancora dentro di lei come lei era piantata dentro di lui.

La donna aveva guardato dalla sua parte, ma non aveva interrotto la danza ed era uscita di scena subito dopo, rientrando.

Probabilmente non lo aveva riconosciuto. Normale, si disse Cal. Lui sì che era cambiato da quando lei lo chiamava il signor “Tuttostile”. Si toccò sopra il labbro per rendersi conto dei baffi, che allora non c’erano e abbassò lo sguardo sulle scarpe consumate, quelle che aveva rubato all’assiderato fuori da un dormitorio da qualche parte, a Philadelphia, sì, e che camminavano ogni giorno con lui da quasi tre anni, più o meno da quando quel bastardo dall’andatura grottesca e dal pelo incasinato di Bogart, il nome era scritto sulla medaglietta, aveva iniziato a seguirlo. Quel cane gli faceva da compagnia e da terapia, ma non gli voleva davvero bene dopotutto.

Solo allora tornò la solita fitta. Quella che lo attraversava da parte a parte all’improvviso e che lo faceva tornare con i piedi per terra ogni volta che riusciva ad allontanarsi dal dolore. Scomparve quando dalla Chevy bianca scese la ragazza. Doveva essere al college adesso. Gli sembrò la copia perfetta di quella che era Becky prima di trasformarsi nel dolce fantasma che aveva visto poco prima sul portico. Aveva parcheggiato sullo stesso lato della strada dove si trovava Cal e per tornare a casa dovette passargli davanti. Sorrise. E anche se lo fece al cane e non a lui, Cal comprese che era per qualcosa come quella che aveva completato l’orbita, la parabola e che il caso non aveva avuto nulla a che fare con ognuno dei posti in cui si era trovato a sopravvivere negli ultimi undici anni. Sarah lo oltrepassò. Non si voltò, superò il cancello e scomparve anche lei in casa.

Cal aspettò qualche minuto. Poi si alzò, con un una fiducia patetica ed eroica tentò di rassettarsi l’abito lacero, si risistemò il cappello in testa e si diresse verso il 731. L’ultimo viaggio fu interrotto dall’uomo che usciva in quel momento dalla casa seguito da un saluto allegro, e che attraversata la via entrava nella Chevy di Sarah, metteva in moto e si allontanava piano. Il pensiero che ora ci fosse qualcuno al posto suo, con sua moglie e sua figlia, lo fermò. Esattamente ad un numero da casa sua. E anche se non rimase troppo sorpreso, né dispiaciuto, la fitta tornò. Per farla andare via, Cal Williams dovette fermare la donna di mezza età che stava per entrare al n° 730, convincerla a restare un attimo con l’ultimo sorriso tenero che gli rimaneva, un osso che aveva messo da parte chissà quanto tempo prima, e chiedere.

La donna gli disse che quando era arrivata lì dieci anni prima, la casa al 731 era già vuota. Le avevano raccontato che il proprietario, un tale mr. Williams, era sparito da un giorno all’altro, dopo l’incidente in cui erano morte la moglie e la figlia Sarah.

- Quelli che ci vivono adesso, i Rivers, l’hanno presa in affitto due o tre anni fa. Bella famiglia – concluse la donna.

Tutto gli si mostrò per quello che era. Un cerchio.

Un cerchio perfetto, aggiunse dentro di sé.

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