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Per giungere all'ingresso della struttura c'è un breve tratto da fare a piedi, la ghiaia che scricchiola sotto i piedi sono frammenti di ossa polverose. È metà mattinata e non c'è ancora molta gente. Da qui ancora non si vede niente, ma c'è già qualcosa che mi prende nel mezzo del petto. Suggestione o altro? Non so. Però so che quando sento delle voci (NB italiane) che parlano ad alta voce, mi fanno l'effetto delle unghie su una lavagna. Vorrei dirgli qualcosa. Qualcosa che ha a che fare col rispetto del dolore e l'omaggio alla memoria. E se fossero stati dei ragazzini forse l'avrei fatto. Ma costoro ragazzini non sono. Sono signore e signori, maturi e attempati, che parlano di frivolezze come se si stessero aggirando alla fiera patronale, tra banchi di mutande e pentole antiaderenti. Meglio superarli e lasciarseli indietro. Eppure il loro atteggiamento lascia un residuo dentro di me, come un retrogusto che devo ancora identificare e che solo verso la fine della visita riuscirà a mettere a fuoco.
Il tempo per orientarmi e mi trovo al cospetto della cosiddetta Jorhaus Tor, il cancello situato nell'edificio dove si trovava il comando delle SS, attraverso cui tutti i prigionieri dovevano passare per entrare nel campo. Anche qui, come nel caso di Auschwitz e di molti altri lager, nella trama del ferro battuto fa bella mostra di sé il grottesco e crudele messaggio di benvenuto ai prigionieri Arbeit Macht Frei, ovvero Il lavoro rende liberi, come un cioccolatino sopra il cuscino nella stanza dell'hotel. E proprio lì davanti non posso fare a meno di notare la calca disordinata di gente (NB non solo italiani) che fa a gara per farsi immortalare con la scritta sulla sfondo. «Chiudi la porta..., dài chiudi la porta che non si vede bene la scritta, ok, così va bene, ora vai un po' più indietro, a destra, aspetta..., abbassati un po', okay, sì ma sorridi, fico!... clic, oh, no aspetta è venuta una schifezza, troppo scura, rimettiti lì. E richiudi quella cazzo di porta! Vabbè, aspetteranno un attimo per passare, 'sti stronzi...», e via in tempo reale su Facebook/Twitter/Flickr/Splinder/Blogger...
La visita prosegue nel grande edificio principale, dove erano situati guardaroba, cucine, officine e bagni, nonché un certo numero di spazi dedicati a tortura e vessazioni assortite. L'esposizione ripercorre cronologicamente la storia del campo, partendo dall'antefatto, ovvero dalla situazione politica e sociale venutasi a creare in seguito alla disfatta della Germania nella I Guerra Mondiale, la Repubblica di Weimar, la grave crisi economica e sociale degli anni '20, la conseguente progressiva ascesa del NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei), e la sua affermazione nelle elezioni del 1932. Dachau fu il primo "campo" istituito da Hitler solo poche settimane dopo la sua "presa di potere" avvenuta il 30 gennaio 1933, per togliersi di mezzo soprattutto gli avversari politici, comunisti innanzitutto, ma anche socialdemocratici, sindacalisti e in seguito pure conservatori e monarchici. Il suo triste primato lo rese anche una sorta di campo di "esempio" e di "prova" per tutte le sistematiche e disumane applicazioni di abuso, violenza, tortura e sterminio che sarebbero venute da lì in avanti, sempre più efferate, fino alla fine della II Guerra Mondiale. Ma di questo ne parliamo domani.
[Nota: "Unsere letzte Hoffnung" significa: "La nostra ultima speranza"]
/continua
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