Senza voler mettere in discussione l’autorevolezza dell’autore, la sensazione rimastami dopo la lettura de Il cimitero di Praga è quella di un intellettuale che per quanto riguarda la scrittura di romanzi vive ancora della rendita de Il nome della rosa.
Non a caso a mio parere anche dopo le tante vendite di questo suo lavoro, Umberto Eco per il grande pubblico continuerà ad essere conosciuto come l’autore di quel libro.
Il cimitero di Praga presenta un’idea bella e particolare, vale a dire una narrazione a più livelli che coinvolge e che sembra provenire dal mondo del cinema.
Anzi, a pensarci bene probabilmente il metodo è più adatto al cinema dove il continuo alternarsi delle personalità del protagonista potrebbe essere ben supportato da qualche effetto speciale.
Nel libro invece, questa trasposizione è determinata dall’inizio di un nuovo capitolo e nulla più, riuscendo in maniera piuttosto piatta nell’intento di creare il giusto pathos.
Un altro aspetto che poco mi ha appassionato devo dire che è stato proprio il modo di scrivere.
Il romanzo presenta all’inizio una lunga descrizione dell’abitazione del protagonista che però non riesce a creare quel qualcosa di misterioso tale da attirare l’attenzione e la curiosità del lettore, ma sembra solo un elenco di oggetti che oltretutto pare senza fine.
Allo stesso modo nel corso del romanzo, spesso Eco, assecondando i gusti e le passioni del personaggio da lui creato, si lancia in descrizioni di ricette che non portano a nulla.
Sono tutto sommato inutili per lo svolgersi delle vicende e non sono neanche così dettagliate da costituire una vera e propria guida sulla cucina di fine ottocento.
Se questo era l’intento dell’autore si sarebbe potuto pensare ad un’appendice che riunisse in maniera più dettagliata tutte le preparazioni presenti nel romanzo, lasciando nella storia vera e propria soltanto un accenno.
Diversamente mi sono sembrate un ulteriore ed inutile rallentamento in una vicenda che in molte sue parti risulta già abbastanza statica.
E’ vero che il periodo storico coperto è pieno di avvenimenti importanti, a partire dalla spedizione dei Mille per arrivare all’alba del nuovo secolo, passando per la Comune di Parigi e la nascita dell’antisemitismo, però sono poche le cose vissute in prima persona dai personaggi; si tratta in prevalenza di racconti di episodi che li hanno coinvolti, da qui il basso livello di dinamismo del libro.
E’ invece proprio nell’aspetto storico che ho trovato la parte che mi ha affascinato ed interessato maggiormente.
La storia della spedizione dei Mille di Garibaldi che prende corpo e viene supportata non solo economicamente da rivoluzionari e da servizi segreti di paesi stranieri (indipendentemente dal fatto che questo corrisponda al vero o meno), è certamente più credibile di quanto ci hanno insegnato fin dalle scuole elementari.
Vale a dire che un manipolo di un migliaio di persone non può avere avuto la meglio sull’esercito borbonico senza appoggi esterni di qualche natura.
Altrettanto si può dire della reazione della malavita siciliana che non può avere avuto un atteggiamento neutrale.
Le guerre e le rivoluzioni hanno sempre avuto aspetti negativi e tragici in ogni schieramento e la linea di confine tra buoni e cattivi alla fine viene sempre segnata dai vincitori.
Quando si studia l’incontro di Teano tra il re e Garibaldi con il famoso “Obbedisco!” spesso non si approfondisce la situazione e la qui ben raccontata corsa per riuscire ad essere il primo ad entrare a Napoli passa di solito in secondo piano.
Questo non per dire che la storia vada riscritta nella sostanza, ma semplicemente per ricordare che l’andamento delle cose spesso dipende dai dettagli e più dettagli vengono raccontati e meglio è, senza avere l’intenzione o la voglia di riconsiderare la storia, ma per puro spirito di conoscenza.
E’ stato questo l’aspetto che ho preferito del libro di Umberto Eco, quello legato al romanzo storico.
Parigi occupata dai tedeschi, la Comune, il nuovo periodo del Terrore, ma anche la nascita dell’antisemitismo in Russia e nell’Europa tutta fino ad arrivare al J’accuse di Dreyfus che ricordavo solo in modo superficiale dai tempi della scuola.
Ecco allora che il mio giudizio finale sul questo ultimo libro di Umberto Eco si può riassumere in una parte positiva che si riferisce a tutta la narrazione e all’analisi delle vicende storiche avvenuta in Europa nella seconda metà dell’ottocento e in una parte negativa dovuta ad un modo di scrivere forse troppo rallentato, forse troppo descrittivo spesso senza ragione, forse, mettendo assieme tutte le mie le critiche, troppo intellettuale.