Fulcro concettuale centrale del cinema di Federico Fellini, a partire da La dolce vita, ci sembra il linguaggio, inteso qui come il complesso delle forme e dei dispositivi con cui una data cultura veicola nella sua dimensione sovra-individuale, comunitaria e/o di massa, l’espressione dei suoi universi simbolici. L’impostazione non narrativa che caratterizza il cinema felliniano, a partire dagli anni ’60, va collocata a nostro avviso in questa dimensione metalinguistica di riflessione sulle forme espressive e simboliche riferibili alla “cultura sociale” in quanto tale, piuttosto che al singolo individuo stretto nella rete delle comunicazioni e dei contatti, concreti ed effettuali, con i suoi consociati. Il tema linguistico in questione risulta poi contestualizzato nell’ambito della società occidentale del benessere, coeva alla produzione filmica in questione.
Cinque ci paiono le declinazioni concettuali preminenti del tema nel cinema di Fellini:
- il simulacro, quale paradigma simbolico del linguaggio nella società contemporanea: il linguaggio con cui si esprime la cultura contemporanea viene tematizzato come un campo espressivo di rappresentazioni autoreferenziali, nella cornice di un’affermata società mediatizzata (la società dello spettacolo tematizzata paradigmaticamente da La dolce vita e dai suoi “eventi mediatici” costruiti sul nulla)[1];
- la seduzione, quale paradigma politico del linguaggio nella società contemporanea, ovverosia l’impossibilità di fuoriuscire da un ordine politico-culturale regressivo, che esercita il proprio dominio massivo mediante un linguaggio sostanzialmente populistico, che seduce[2]: i simboli del potere istituzionale e della soggezione paiono diventare progressivamente e sistematicamente permutabili, mettendo in scena così un “carnevale”[3] sistemico e perenne, consumato nel segno della “partecipazione” della massa popolare ora agli universi simbolici “inclusivi” e “liberalizzanti” veicolati dai media (la società neotelevisiva preconizzata da La dolce vita e poi delineata in Ginger e Fred), ora ai deliri rivendicativi, ancora più estremistici, del “movimento” del ’68, tematizzato (nella sua versione femminista e non) da La città delle donne e Prova d’orchestra quale campo espressivo, liberalizzato, caotico e fanatico, di egotismi individuali patologici; l’annientamento della creatività culturale (l’atrofia dell’immaginario consumista simbolizzato dai fantasmi perversi e ossessivi de Il Casanova di Federico Fellini) e l’involuzione democratica (Prova d’orchestra) costituiscono il portato latente di questo peculiare ordine politico-linguistico seduttivo e della destituzione simbolica di ogni autorità sociale[4];
- il dispositivo, come paradigma mediologico del linguaggio nella società contemporanea: i mezzi di comunicazione di massa dell’epoca televisiva vengono tematizzati quali vettori di induzione di peculiari automatismi psichici nel fruitore (in primis, un voyeurismo sessista sempre più spinto, veicolato e incentivato nel pubblico dall’esposizione carnale di molte icone mediali femminili);
- l’ironia, come spazio residuale del linguaggio per esprimere operativamente il dissenso politico nella cultura simulacrale e seduttiva e nella società del benessere coeve all’autore: se il linguaggio con cui si esprime la cultura contemporanea tende ad essere tematizzato come uno spazio (e un contenitore) del sociale inclusivo, scollegato dall’effettualità del reale, mediaticamente dispotico e dunque omnipervasivo e totalizzante, l’ironia si presta quale l’ultimo strumento utile per metterlo in corto-circuito, sabotandolo dall’interno nell’ambito di discorsi metalinguistici e decostruttivi; è questa la prospettiva concettuale con cui va inquadrato l’impiego ricorrente della figura dell’ironia in un cinema, come quello felliniano, che tende a introiettare, in una titanica tensione metalinguistica, le summenzionate marche linguistico-espressive della cultura coeva (seduzione carnevalesca, simbologia simulacrale, esibizionismo/voyeurismo dei dispositivi mediali, impatto totalizzante e omnipervasivo sulle singole soggettività etc.), restituendole in altrettante marche estetico-formali dei testi filmici[5];
- il patrimonio culturale del passato, quale sopravvivenza di forme linguistiche associate all’abisso di una perdita simbolica: la perdita di culture secolari italiane (la cultura comica popolare, fra piazza, circo, avanspettacolo e carnevale; il cattolicesimo nella sua dimensione sessuofobica e autoritaria e in quella mistica, caritatevole e popolare; la borghesia ottocentesca, nella sua compromissione con un potere repressivo e reazionario di matrice cattolica, e nella sua veste artistica del “culto estetico” di E la nave va), più o meno sensibile alla coscienza collettiva nella destituzione simbolica, ideologica e spirituale dei loro codici, segni ed estetiche ancora galleggianti nell’universo linguistico della postmodernità, viene messa a fuoco nell’universo poetico felliniano come una perdita e svalutazione di un bene spesso prezioso (cfr., in questa prospettiva, le nostalgie cattoliche e cristiane del finale de La dolce vita, i rimpianti spirituali feroci de La voce della Luna, la disintegrazione del senso profondo della “memoria” allo scoccare di una nascente società di massa, scandito dalle cannonate di E la nave va, i motivi ricorrenti delle suore mute, dei professori e preti bacchettoni, e del vento che porta tutti via…).
Francesco Di Benedetto
[1] Cfr. a riguardo Andrea Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, cap. 3, e Jean-Paul Manganaro, Federico Fellini. Romance, Il Saggiatore, Milano 2014 (in particolare, i due capitoli dedicati a La dolce vita, pp. 121-155). Sui risvolti sociologici della questione, si veda il testo paradigmatico Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2001.
[2] Per una definizione teorica della seduzione, si veda Jean Baudrillard, Della seduzione, SE, Milano 1997; laddove tale categoria concettuale tende per lo più a delimitare il campo filosofico, semiologico e pragmatico di una relazione ludica che metta in questione e in scacco le rivendicazioni e le pretese sul “reale” avanzate specificatamente o contemporaneamente dall’ordine e dal potere sociali, dal desiderio individuale e dal senso simbolico. Nello stesso saggio Baudrillard teorizza una dimensione politica della seduzione, propria di una contemporaneità che ha visto crollare larga parte degli edifici e degli istituti simbolici della storia precedente, necessitando pur tuttavia di strumenti di controllo e di indirizzo sociali, ritrovati appunto nel gioco della domanda e dell’offerta di seduzione tra pubblico consumistico e “modelli” prefigurati dalle produzioni culturali (mercato degli oggetti, mercato politico-elettorale, produzioni mediali etc.): cfr. a riguardo, in particolar modo, la p. 181 e le ss.
[3] Sulla concezione del carnevale come spazio simbolico, cronologicamente delimitato e ricorrente, deputato a una permutazione dei segni del potere sociale, e sui suoi risvolti simbolici nella tradizione della cultura comica popolare, si veda Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 2001.
[4] Sull’attualità sociale delle tematiche in questione, cfr. Marco Belpoliti, La morte del carnevale, in «www.doppiozero.com»:
http://www.doppiozero.com/rubriche/3/201602/carnevali-senza-infrazioni
[5] Sulla “seduzione” quale paradigma estetico del cinema di Fellini si veda Andrea Minuz, Dell’incantamento. Hitchcock, Bergman, Fellini e il motivo dello sguardo, Ipermedium libri, S. Maria C. V. 2009, pp. 123-148; sulla matrice direttamente carnascialesca dell’estetica grottesca del cinema felliniano si veda poi Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma 1999, pp. 49-60.