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Il cinema di frontiera di Pippo Delbono: Sangue

Creato il 28 marzo 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

 

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Ci sono film che spostano le frontiere del cinema, che presidiano le regioni estreme della narrazione per immagini, che lasciano un segno, poco appariscente ma duraturo come le incisioni che attraversano i millenni. Sangue di Pippo Delbono è una di queste incisioni, scavate nel corpo di chi racconta e di cui resta una traccia digitale che merita di attraversare il tempo. Pippo Delbono correla due eventi apparentemente infinitamente distanti: la morte di sua madre e quella di Roberto Peci, avvenuta oltre trent’anni prima. A raccontare queste due morti sono i protagonisti delle storie. Da un lato il figlio-regista Delbono, dall’altro il brigatista Giovanni Senzani.

Delbono sa che sua madre sta per morire e decide di filmarla, di darle la parola, di raccogliere i suoi ultimi pensieri, le ultime sue espressioni del volto. E’ un racconto d’amore che diventa impietoso, crudele, estremo. Filmare la morte significa sfidarla ma la morte eccede, per definizione ontologica, l’uomo. Questa sfida è eresia, è una scommessa persa in partenza. Una sconfitta che può manifestarsi, nel migliore dei casi, in inefficacia, nel peggiore in profanazione. Eppure esiste un sentiero impervio tra questi due estremi che conduce ad un esito sincero che rappresenta l’affermazione dell’uomo sulla morte. Si tratta di un raccontare funambolico, in bilico sul baratro, che riesce a giungere a destinazione solo grazie ad un patto di fiducia con lo spettatore che accetta le miserie intrinseche nelle imperfezioni dei protagonisti, nei limiti degli strumenti espressivi ed anche delle tecniche di espressione. Delbono è talmente consapevole dei limiti tecnici del cinema e del narrare che sceglie di utilizzare gli strumenti più poveri e più semplici, come la videocamera di un cellulare, cedendo la potenza tecnica in cambio dell’immediatezza e della riduzione dell’invasività dello strumento. Questa scelta è decisiva quando si decide di raccontare la realtà in presa diretta, senza costruzione scenica.

Chi guarda il film è partecipe degli ultimi giorni di vita della madre di Delbono ed anche della sofferenza del regista dopo la sua morte. Se per un attimo dubitassimo delle sua onestà il film diventerebbe puro abominio, perché la legge umana esecra la profanazione della morte e del suo dolore. Egli lo sa ma confida nel giudizio del pubblico, vincendo la sfida.

Se si limitasse a raccontare la storia di dolore familiare che lo ha colpito sarebbe stato forte il rischio di ricadere in un’analisi della sofferenza individuale dai tratti freddamente entomologici o peggio vacuamente melodrammatici ma qui interviene un altro colpo di genio dell’autore: ovvero la condivisione del suo dolore con quello del brigatista Giovanni Senzani. La condivisione permette una lettura pubblica delle sensazioni che diventa materia sociale, da spartire con gli altri. Senzani è stato l’ideatore e l’attuatore del piano che ha portato alla morte di Roberto Peci, fratello del primo grande pentito delle BR, Patrizio Peci. Sequestrato nello stesso giorno in cui l’Italia trepidava e piangeva per la tragedia di Alfredino Rampi, veniva ucciso alcune settimane più tardi in uno squallido casolare nella periferia di Roma, accusato di essere egli stesso un traditore ed uno strumento nelle mani del prefetto antiterrorismo Dalla Chiesa. Senzani, criminologo di professione, decide di filmare alcune scene del “processo proletario” a Roberto Peci, il quale ammette di essere stato una spia. La videocamera di Senzani inquadra in modo scalcinato anche gli istanti in cui viene annunciata la sentenza di morte contro Peci, mentre in sottofondo un mangianastri diffonde le note dell’Internazionale, saltando alcune note e distorcendone la musica. L’effetto sarebbe comico se in gioco non ci fosse una vera vita che sta per essere falciata. Si assiste all’effetto inaspettato in cui un racconto insulso destinato alla farsa diventa tragico a causa di una morte incombente che tutto trasferisce nel mondo dei simboli, sottraendolo all’ulteriore oltraggio della fallacia degli uomini.

Senzani, oggi, è totalmente consapevole di questo. Ce ne accorgiamo quando si sofferma su alcuni dettagli, ricorda lo squallore del casolare, la sporcizia e poi due particolari agghiaccianti nella loro minuzia che diventa determinante: da un lato il grido di fatale sorpresa di Peci, a cui era stato fatto credere che l’avrebbero liberato, quando sente le pallottole entrargli nel corpo, dall’altro il pietoso rito a cui si sottopose Senzani, andando ad alzare il passamontagna che copriva gli occhi di Peci per accertarsi che fosse morto perché sentiva ripugnanza all’idea che potesse agonizzare in quel posto desolato. Dettagli. Che definiscono la dimensione di una morte, di un racconto.

Sia Delbono sia Senzani hanno sentito il bisogno di filmare la morte di qualcuno che era stato determinante nella loro vita. Il primo ispirato ad un sentimento d’amore, il secondo guidato da odio. Entrambi accomunati nella tragica grandezza della morte. Il racconto di Senzani avviene a ridosso della morte della sua compagna di vita. Ed e’ subito dopo la morte di lei che racconta per la prima volta davanti alla videocamera i dettagli della morte di Peci. Come se solo la cognizione del dolore permettesse di raccontare in spirito di verità. Oggi che il suo progetto politico è naufragato ed ha perduto credibilità ai suoi stessi occhi, di quell’evento resta ancora forte la dimensione umana, che ci arriva intatta.

Se questa storia era iniziata tra i rami spogli e ricoperti di neve sotto cui sfilavano i compagni di Prospero Gallinari, convenuti al suo funerale, la cornice simbolica di questo racconto è la città di L’Aquila, distrutta da un terremoto che ha causato più vittime di quante la natura avesse programmato, a causa dell’incuria e della corruzione dell’uomo, contro le quali Delbono si chiede se non sarebbe giusto scagliarsi con violenza, come fecero i brigatisti. Ma non è giudice né di uomini né della storia, si limita a confermare la sua scelta per la vita, incapace di dare dare morte, perché essa già regna sovrana sulle vite degli uomini ed egli non ha né la forza né la voglia di convocarla prima che il suo tempo sia venuto.

Pasquale D’Aiello


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