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Il cinema gnostico di Artur Aristakisjan

Creato il 27 gennaio 2012 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Il cinema gnostico di Artur Aristakisjan

Artur Aristakisjan, cineasta moldavo di origini armene, ha girato nella sua vita due soli film, due opere assolutamente radicali sorte per effetto della lunghissima gestazione di esperienze personali ai limiti della follia e nel principio di un’estetica irrispettosamente perentoria. Cineasta artaudiano di un cinema dell’esplorazione viscerale sui corpi e del confine dell’(ir)rapresentabile, Aristakisjan esordisce nel 1995 con l’impervio Ladoni, suo film di diploma alla gloriosa scuola di cinema di Mosca, la VGIK. Programmaticamente diviso in 10 capitoli e ambientato tra i mendicanti della città di Kishinev, il film analizza la crisi successiva alla caduta dell’Unione Sovietica attraverso una lettera che il narratore rivolge al figlio non ancora nato, augurandosi che egli diventi un mendicante per accogliere quello spirito che sta abbandonando la terra; da qui si dipartono le numerose storie di mendicanti ed “emarginati che si interrogano sui meccanismi dell’esclusione sociale”.

Il cinema gnostico di Artur Aristakisjan
Per 4 anni Aristakisjan ha filmato l’esistenza miserabile di personaggi autentici (malati di mente, epilettici, storpi) convivendo con loro, condividendo la loro disperazione, scandendo il tempo della loro amicizia. Per mezzo del racconto trasmesso dagli stessi emarginati, il regista attua una complessa meditazione politica, enigmatica e indiretta, sul conflitto fra il Sistema delle cose e lo Spirito dell’uomo, restituendone poeticamente il suo archetipo insanato. I marginali di Aristakisjan esprimono la purezza rovesciata dei loro corpi nudi, così semplicemente scoperti, delle loro tare e della loro fratellanza embrionale, un universo di volti primitivi che non rappresenta il confine della natura ma esiste come natura stessa del confine.

Lo sguardo del regista abdica al formalismo della calligrafia e all’artificio tecnico in favore di un linguaggio primitivo (ma con una fotografia in bianco e nero assai suggestiva) capace di rilevare grandemente la corruzione del Sistema e l’ascesi dello Spirito di questi emarginati, avendo per loro non uno sguardo di pietosa aderenza ma di autentica complicità contro la regola inumana della desacralizzazione del quotidiano che annienta la vita e aliena lo spirito sino a farne materia. Così i diseredati, la massa miserabile degli ultimi, diventano i profeti della rinascita, le icone della libertà, i simboli di una liberazione il cui sacro non è altro che il cammino della loro umiltà, quella divinità di pura luce che sanno comprendere solamente i ciechi.

Mesto na zemle, secondo film di Aristakisjan, giunge dopo sei anni di operoso silenzio e la dura esperienza all’interno di una comune.

Il film racconta le vicende di una comunità singolare che si può ricollegare ai movimenti spontanei, agli ambienti di ispirazione hippy, come pure alle primordiali comunità religiose. Il gruppo vive in un diroccato edificio moscovita abbandonato, con l’idea di dare tutto a tutti, amore compreso, principalmente ai più diseredati, emarginati e ai senza casa della metropoli. Il fondatore della comunità è un personaggio fortemente carismatico con una visione sociale estrema, un po’ profeta un po’ predicatore. L’uomo si rivela nel corso della vicenda piuttosto ambiguo; sebbene ispirato da ideali apparentemente di condivisione totale, di risorse materiali ed affettive, e senza alcun tipo di limitazione o inibizione, soffre della perdita di autorità e non riesce a rimanere coerente con i principi da lui stesso propugnati. Questo avviene per una sua infatuazione nei confronti di una frequentatrice della comunità, ma di estrazione sociale assolutamente disomogenea dal resto del gruppo, e che diverrà sua compagna prediletta. La cosa, per la reazione autopunitiva del mistico, avrà conseguenze drammatiche, su di sé e sul futuro comune di tutti gli altri.

Il cinema gnostico di Artur Aristakisjan
Parabola totalmente gnostica che narra il tentativo di costruzione di una corpo comunitario fondato sul reciproco dono e sulla regressione allo stato di natura, il film trae origine nella sua sceneggiatura proprio dall’esperienza concreta di Aristakisjan che ha ricondotto ad un generico canovaccio i turbamenti e le suggestioni di un ideale di vita spontaneo. Il modello del dono assoluto di sé si fa tremendamente radicale fino quasi ad assurgere ad esperienza religiosa, una mimesi cristologica che adopera i simboli della religiosità tradizionale (la natalità, la comunione, l’eucarestia, il tradimento) in funzione di una radiografia impietosa dei meccanismi di magnetismo esistenziale e di condizionamento morale votati alle conseguenze fatali dell’autodistruzione.

Il capo carismatico della comunità, un cristo predicante che offre il proprio sesso agli storpi e ai disperati (dunque a coloro che iconicamente rappresentano la trasgressione al principio dell’ordine del corpo), finirà però per perdere autorità per effetto di un radicalismo inautentico, incapace di rendere in pratica l’estremismo del suo pensiero, così che i fedeli non potranno che uscire di senno o riconquistare la normalità. Il film prosegue il discorso di Ladoni, mostrando l’impossibilità della rivoluzione spirituale degli emarginati che non passi per una totale rinuncia di sé, quel fine sacro dell’ascesi assoluta che è l’abdicazione all’egoismo umano. Così la comunità di Aristakisjan, pure se lungi dal socialismo totale dello spossessamento di sé per gli altri, non analizza solamente il momento utopico dei diseredati e degli ultimi, ma, attraverso il loro tentativo di rovesciamento della prassi, getta uno sguardo crudele sui processi di alienazione e reificazione di una società distopica e totalitaria, volta al controllo sociale e alla perpetuazione dei meccanismi di esclusione, che, risemantizzati politicamente in funzione persuasiva, mirano alla segregazione fisica e culturale del popolo degli ultimi, quei diversi che, repressi ed emarginati, non potranno che assurgere a voce totalmente altra dal sistema irreggimentato della tirannia degli antivalori borghesi.

Il cinema gnostico di Artur Aristakisjan

 

Lo gnosticismo paleocristiano di Aristakisjan, essenzialmente mistico, si compie nella rappresentazione estrema del corpo: un corpo umiliato, osceno, mostruosamente deficitario e malato, un corpo che simbolicamente è il precipitato dell’estetica cristologica del regista, assai vicino al cinema di Pasolini nell’attingere alla bellezza rovesciata della passione e all’inquietudine sessualmente macerata degli esclusi.

La rappresentazione di Aristakisjan è così l’irrappresentabilità dei rituali corrotti e disgustanti del sesso e della castrazione, il limite estremo e iconoclasta dell’immagine debordiana fino al nulla come rifiuto totale del consumo e dello spettacolo, il principio artaudiano della crudeltà e “dell’emersione dello spettatore interiore” che linguisticamente Aristakisjan realizza con una fotografia in bianco e nero contrastatissima, con una progressione nervosamente drammatica del dispositivo narrativo, con inquadrature simboliche e di violenta colluttazione iconica, con un’ambientazione desolata e surreale che atterrisce nel profondo stupore della poesia, quel senso panico delle cose che rende muti sul ciglio spaventoso del nulla.

Beniamino Biondi

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