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Il cinema politico di Mario Monicelli

Creato il 15 agosto 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Il cinema politico di Mario Monicelli

La Commedia all’italiana ha subito a lungo una sorta di ostracismo da parte della cultura “alta” che aveva individuato nel dramma e nel realismo gli elementi più idonei alla narrazione, soprattutto in relazione al contesto politico che negli anni ’70 sembrava assumere caratteristiche se non pre-rivoluzionarie quantomeno  di  drammatico conflitto sociale. In questo frangente  tralasciamo di entrare con posizioni di merito all’interno di quella dialettica contrappositiva tra dramma realista e commedia impegnata, limitandoci a constatare come la filmografia della Commedia all’italiana ricopra ancora un significativo ruolo comunicativo.

Tra i fattori che hanno lavorato contro i meriti della Commedia all’italiana vi può rientrare anche l’esito degenere che ha intrapreso la commedia italiana successiva (commedia sexy, poliziottesco, etc) che può aver beneficiato dello scardinamento da essa operato delle regole narrative tipiche del dramma realista. A oltre 30 anni dalla scomparsa di quel filone e consapevoli delle non magnifiche sorti che il cinema di impegno sociale (sia dramma che commedia) sta attraversando in Italia, possiamo accingerci ad una rilettura del rilievo politico del cinema dell’iniziatore della Commedia all’italiana, di cui è interessante focalizzare il carattere di continuità con il Neorealismo di cui raccoglie l’ispirazione popolare, tanto nei protagonisti quanto nell’ambientazione.

Questo è particolarmente vero per la filmografia di Monicelli, sia essa compresa o no nella filmografia della Commedia all’italiana. La critica suole individuare l’inizio di tale genere con I soliti ignoti (1958), in cui la narrazione è ambientata in un contesto ultra-popolare (a buon diritto si può parlare di sottoproletariato), che vede all’opera una sgangherata banda di rapinatori di cui fa parte anche Peppe er pantera (Vittorio Gassman), che conclude la sua carriera di ladro facendosi assumere come manovale. L’impegno civile di Monicelli è rintracciabile già in opere precedenti, quali Proibito (1954), ambientato in un paese sardo funestato da una faida, ma che risente ancora di un’impronta ingenuamente positivista, in similitudine con In nome della legge (1948) di Pietro Germi (e di cui Monicelli figura tra gli sceneggiatori) che affronta con il medesimo approccio il ben più complesso fenomeno della mafia. Anche in Un eroe dei nostri tempi (1955), che è ancora un film basato su gag e sketch, possiamo apprezzare un finale che non esita a connotare la polizia e i suoi reparti speciali (largamente adoperati dal governo Scelba) come naturale porto di approdo di un cittadino psicotico e asociale (l’immaturo e succubo della famiglia Alberto Sordi). Nel 1959 Monicelli realizza, oltre al film di tema resistenziale Lettere dei condannati a morte, La grande guerra che pone fine alla trattazione eroica della guerra e mette in evidenza anche la miseria dei sentimenti che muovono le azioni di chi in extremis trova il coraggio di essere, suo malgrado, eroe.

Del 1960 è Risate di gioia che segue le vicissitudini di due povere comparse cinematografiche (Totò e Anna Magnani) coinvolte in un turbinio di tentativi di  furti e arriva a esporre con nitidezza, magari con rischio didascalico, una teoria sociologica del crimine. Con I compagni (1963) Monicelli realizza un affresco  vivido ed efficace della Torino di fine ‘800 che diviene testimone delle prime lotte operaie e della costituzione dei sindacati nell’Italia che si andava industrializzando, mettendo in rilievo il ruolo reazionario e di classe dello stato post-unitario. L’arrivo degli anni ’70 vede la realizzazione di I colonnelli (1973) che fa esplicito riferimento al golpe Borghese e alle trame stragiste dell’estrema destra alleata con pezzi dello stato. Nel 1976 Monicelli è tra i registi del film collettivo Signore e signori, buonanotte che, seguendo le trasmissioni di una fantomatica emittente televisiva, mette in scena una feroce critica contro la corruzione, i militari e la chiesa. Dello stesso anno è Caro Michele, tratto da un romanzo di Natalia Ginzburg , che affronta in chiave intimistica il tema della lotta armata, collocandosi con maturità nel genere drammatico e anticipando la conclusione dell’esperienza della Commedia all’italiana che avviene per Monicelli con Un borghese piccolo piccolo (1977), incentrato sulle ansie e le insicurezze del ceto piccolo borghese (un misero contesto impiegatizio che vive ristrettezze “operaie” ma con aspirazioni borghesi) disposto a qualunque ignobile compromesso pur di avanzare e non affondare, ma che è condannato ad una disperante solitudine.

Monicelli ritorna all’impegno politico con Un altro mondo è possibile (2001), film collettivo che voleva incaricarsi di raccontare le ambizioni e le proposte dei manifestanti anti G8 di Genova e si è ritrovato a dover raccontare delle brutali repressioni delle forze dell’ordine guidate dal governo Berlusconi, e nell’altro film documentario a regia collettiva Lettere dalla Palestina (2004), dove vengono raccolte alcune testimonianze minime sulla vita nei territori soggetti al dominio israeliano. Anche nel suo ultimo lungometraggio Le rose del deserto (2006) non rinuncia a mostrare i limiti del nostro paese e, narrando le vicende di una compagnia militare di stanza in Africa, riesce a mettere in relazione di continuità la superficialità arrogante dell’esercito fascista con quella di oggi della società italiana, senza rinunciare a mostrare anche il risvolto d’umanità che caratterizza gli italiani, come aveva già fatto con La grande guerra.

Il dibattito sull’approccio duale di tali film che non riescono a condannare ciò che deve essere condannato senza concedere anche una generosa prova di appello può e deve continuare, così come quello sull’utilizzo con fini politici della commedia, con la consapevolezza che la risposta non discende da un postulato teorico (essendo fortunatamente cessata la diatriba medioevale sul secondo libro della poetica di Aristotele) ma dall’analisi della capacità comunicativa.  E una domanda ci è (purtroppo) d’aiuto:  nella realtà dei nostri giorni, che così spesso ci appare surreale e farsesca, quanti film riescono a parlare dello scontro di classe con la stessa forza e lucidità di I compagni? La risposta non è consolante ma ci indica con chiarezza la necessità di custodire con attenzione il patrimonio culturale e politico dei film di Mario Monicelli.

Pasquale D’Aiello

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