Umberto Lenzi
“Il clan dei Miserabili”
Cordero Editore 2014
pp 168
14,00
Sono stato, per un lungo periodo della mia giovinezza, una dozzina d’anni diciamo, a partire dai quindici, maniacalmente appassionato di cinema; poi mi è passata, un po’ per l’allargarsi della forbice tra i miei gusti in fatto di attori e di trame e l’offerta del mercato, un po’ per il sopraggiungere di lavoro, famiglia e figli.
Ai “tempi belli”, comunque, ero arrivato ad andare in sala (allora non c’era l’attuale offerta in dvd e canali televisivi) anche tre volte a settimana, preferibilmente in quelle “seconde visioni” che, all’epoca accompagnavano per mesi la prima uscita di una pellicola.
Spettatore onnivoro, considerato che Bernardo Bertolucci, Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti erano piuttosto parchi di opere d’arte, andavo a vedere di tutto:
-peplum, con quelle tornite attrici in svolazzanti gonnellini che turbavano i miei sogni adolescenziali;
-Totò, che ho sempre trovato infinitamente più divertente nell’età matura che non alle prime esperienze cinematografiche;
-commedie all’italiana, quando i registi si chiamavano Mario Monicelli, Ettore Scola, Luigi Zampa, etc, per poi abbandonare il genere con l’arrivo del trash;
-western, che non mi creavano alcun senso di colpa, perché i cattivi erano sempre e sicuramente gli indiani;
-polizieschi, di scuola americana (che pure non era la mia preferita) ma “redenti” da protagonisti del calibro di Frank Sinatra, Paul Newman e Rod Steiger.
Quando fu il loro tempo, alla collana non potevano mancare i poliziotteschi italiani, prodotto genuinamente nostrano, a suo tempo snobbato, ma che da qualche anno è entrato anche nella considerazione di quotatissimi critici ed esperti, a cominciare da Quentin Tarantino, che, proprio per Umberto Lenzi del quale parlerò ora, ha una specialissima predilezione.
Erano, a dire la verità, film spesso copia conforme l’uno dell’altro, nei titoli (in genere con la presenza della parola “polizia”, che “ringrazia”, “non può sparare”, “chiede aiuto”, e via inventando), negli attori (per esempio, Enrico Maria Salerno era il commissario “buono” per antonomasia, Maurizio Merli quello “manesco”, e poi c’erano il cattivo, tendente al sadismo, Tomas Milian e il duro d’importazione Henry Silva) e nei registi (Enzo G Castellari, Fernando Di Leo, Stelvio Massi, etc)
Un posto di tutto rispetto se l’era guadagnato anche il già citato Lenzi (solo per ricordare qualche suo titolo: “Roma a mano armata”, “Napoli violenta”, “Il giustiziere sfida la città”) che, da qualche anno ho ritrovato sugli scaffali delle librerie come autore di una “serie” di polizieschi ambientati a Cinecittà durante e (finora) immediatamente dopo il fascismo.
Polizieschi che hanno tutti gli ingredienti per piacermi: il contesto “datato”, l’ambiente cinematografico che ha sempre esercitato su di me un grande fascino, e il protagonista, Bruno Astolfi, ex pugile ed ex commissario di polizia. diventato investigatore privato, con un piglio alla Philip Marlowe di noantri.
I titoli finora usciti sono sei (e anche questa “serialità” mi piace: sono un lettore che si “affeziona” ai personaggi), e l’ultimo si chiama “Il clan dei Miserabili”, perché ambientato nella Cinecittà del 1947, mentre Riccardo Freda gira appunto “I Miserabili” con Gino Cervi (Jean Valjean) e Valentina Cortese (Cosetta).
Naturalmente, ho visto questo film (disponibile in due dvd, considerata la durata) e mi è piaciuto molto, certamente più della versione –pure accettabile- con Jean Gabin, dell’obbrobrio americano diretto da Lewis Milestone, e del recentissimo musical (orrore !) con Russell Crowe…altri adattamenti del romanzo di Victor Hugo ci sarebbero, ma fermiamoci qui, per carità di patria.
Lenzi, con una ammirevole aderenza al realtà dell’epoca, si inventa che sul set, in una cassapanca (quella che avrebbe dovuto contenere i famosi due candelabri del vescovo Myriel) , viene trovato il cadavere di un piccolo malvivente, sentimentalmente legato ad una funzionaria della Lux Film: da qui una serie di avventure e colpi di scena che portano per mano il lettore alla scoperta del colpevole.
Ho detto “ammirevole aderenza alla realtà dell’epoca”, perché questa è la migliore caratteristica dei libri di Lenzi: solo per citare qualche nome, in questo si muovono Vittorio De Sica, Alberto Moravia, Cesare Zavattini e tanti altri, con, persino, Totò, che, col fido Mario Castellani, ci ripropone quella vera perla dell’avanspettacolo che è la scenetta dell’onorevole Trombetta in treno.
Intellettuali, attori e personaggi di fantasia, con un sontuoso accompagnamento musicale, nel quale spiccano: “Sposi” di Alberto Rabagliati, la “Vie en rose” di Edith Piaf, “Serenata celeste” di Oscar Carboni e via cantando
Un mix che non poteva non piacermi, e molto pure, tanto da stare qui a parlarne.
Prima di cominciare a scrivere, ho cercato on line alcune recensioni, anche per vedere se il mio giudizio positivo era condiviso; devo dire che, in realtà, però, frequente è il rimprovero a Lenzi di costruire una trama “poliziesca” esile, e di indulgere, piuttosto, sul “contorno”.
Non mi sembra grave; è, in fondo, quello che ho fatto anch’io: una decina di righi dedicati al libro, che doveva essere il tema del pezzo, e per il resto vi ho parlato di vecchi generi cinematografici e di personali gusti da ex cinefilo.
Potrò sbagliarmi, ma credo che molti di voi siano sulla mia stessa lunghezza d’onda….
Umberto Lenzi, “Il clan dei Miserabili”, Cordero Editore 2014, pagg 168, euro 14,00