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Il Club

Creato il 26 febbraio 2016 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma
Il clubplay video
  • Anno: 2015
  • Durata: 98'
  • Distribuzione: Bolero Film
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Cile
  • Regia: Pablo Larraín
  • Data di uscita: 25-February-2016

Arriva nelle sale italiane Il Club, ultimo film del regista cileno Pablo Larraín.

Sinossi: Chiusi in una casa isolata in una piccola città sul mare quattro sacerdoti vivono insieme come in una sorta di prigione per espiare i peccati commessi in passato. Vivono osservando un regime rigoroso sotto l’occhio vigile di una custode, quando la fragile stabilità della loro routine viene interrotta dall’arrivo di un quinto uomo, appena caduto in disgrazia, che porta con sé il suo passato oscuro.

Recensione: Nella casa del Signore, chiunque dovrebbe essere accolto, amato, curato, perdonato. Ma c’è che viene relegato nel più recondito e sperduto degli angoli, dimenticato da Dio e dal mondo, quando diventa la prova scomoda e inconciliabile dell’incoerenza, ignoranza e incapacità di essere all’altezza di ciò che si rappresenta.

Pablo Larraín, a soli 39 anni, sfodera la quinta di una serie di straordinarie opere, una più bella dell’altra, realizzando probabilmente quello che è il suo lavoro migliore, certamente uno dei più coraggiosi e spregiudicati. Il regista cileno ci ha abituati fin dall’inizio della sua carriera, dapprima con il suo esordio, Fuga, e poi con i film girati sullo sfondo della dittatura di Pinochet, come il violentissimo Tony Manero, o lo spietato Post Mortem, al fatto che non concede alcuno sconto quando si tratta di denunciare e mostrare senza riserve delle realtà ostiche e difficilmente digeribili, ritraendo con occhio risoluto e imperturbabile il soggetto su cui sceglie di porre lo sguardo.

E in questo caso, il tema è uno dei più controversi e critici, talmente complesso che raramente viene trattato adeguatamente dal punto di vista umano, praticamente mai con una tale schiettezza e verità.

Larraín riesce a far passare in maniera sublime, con una messa in scena raffinata quanto ruvida, senza alcuna spiegazione, senza necessità di particolari strutture o strategie di dissimulazione, quella che è la realtà che nessuno vuole vedere, quella di cui nessuno parla apertamente, che nessuno sviscera davvero, perché è più facile trattarla superficialmente, vederne solo determinati aspetti, condannarla o chiudere gli occhi, anziché farci i conti e provare a gestirla. E questo avviene a tutti i livelli, sociale, istituzionale, personale. E invece lui la espone con la massima disinvoltura, senza giudizio, senza anteporvi una morale, rispettandone il dolore, ma senza nascondere l’atrocità e le aberrazioni, senza edulcorarla. Una dimostrazione di enorme capacità di empatia, di rispetto per la vita a prescindere, di consapevolezza di ciò che è l’uomo in tutti i suoi limiti e contraddizioni. L’uomo di Larraín è al contempo amorevole e sofferente, ipocrita, egoista, premuroso, corrotto. In sostanza, umano.

Tutti aspetti che convivono indipendentemente dal fatto che abbiano polarità opposte e che alberghino in chi sta dalla parte del “giusto”, del potente, o del reietto.

E così, non ha paura o remore, questo grande autore, nel porsi e porci davanti al fatto che la vittima di un abuso, oltre al dolore, può creare un legame affettivo enorme con chi gli ha fatto del male, cosa che rende ancora più terribili le sue sofferenze; non ha paura di mostrare che chi è attratto sessualmente e affettivamente da un bambino non è un mostro, ma un essere umano malato, un essere umano che soffre, che, nella sua aberrazione e perversione, continua ad avere un’anima, a provare affetto, dolore, colpa. Ma soprattutto, Larraín ha il coraggio di dire quello che quasi nessuno spesso si concede anche solo di pensare, vuoi perché nemmeno se lo chiede, vuoi perché non gli conviene, vuoi perché comporterebbe mettere in discussione dei punti di riferimento che sono troppo radicati, che occupano uno spazio troppo grande nel mantenimento del proprio equilibrio, troppo saldi da buttare giù o anche solo da potersi permettere di far vacillare:

“Pensa ancora agli uomini?”

“Com’è terribilmente miserabile!
Il fatto che lei ha fatto un voto di castità molti anni fa, e in tutto questo tempo non ha fatto altro che pensare a porcherie invece di pregare, non ha fatto l’amore con nessuno, non ha fornicato, quindi non sa cosa si sente,
non sa che la malattia mentale si può curare,
quando il corpo esplode.
Perché io e lei SIAMO CONDANNATI A ESSERE CORPI DISONESTI”.

Sono le parole di un sacerdote scomunicato per aver confessato istinti pedofili, rivolte a un prete che in quel momento rappresenta la Chiesa nella sua istituzione.

“… quando il corpo esplode…”

Sì, perché il corpo può andare incontro a una vera e propria esplosione nel momento in cui viene represso, nel momento in cui si tenta di cambiarlo, quando ci si arroga il diritto di decidere che può controllare e sopprimere i suoi istinti naturali.

E si ammala, si ammala insieme alla mente. E a volte prende strade abnormi, distorte, che probabilmente non avrebbe preso se solo avesse potuto vivere semplicemente in base a quello che è. Perché non esiste corpo umano sano che non si eccita, che non produce gli ormoni che lo portano a desiderare altri corpi, che non ha bisogno di dar voce alla propria sessualità, esattamente come non ne esiste uno cui si possa chiedere di non sudare, di non respirare, di non avere fame o sete. Ed è pura ignoranza, presuntuosissima onnipotenza, pericolosissima e madre di danni inenarrabili, pretendere da chiunque di alterare la propria natura, fargli credere che può sceglierlo. E ancora più grave, il fatto che ancora oggi, queste pretese vengano da un’istituzione che è un punto di riferimento fondamentale per milioni e milioni di persone, che professa ancora regole impossibili da rispettare, creando i suoi mostri, per poi demonizzarli senza mai mettersi in discussione e con il tacito accordo della maggior parte del mondo. E tutto questo ci viene sbattuto in faccia in tutto il suo dolore e in tutta la sua umanità da un dialogo potentissimo, strepitoso per il suo valore inestimabile e per la sua importanza, inserito nel racconto di una storia incredibilmente sofferta, arricchito e impreziosito da una fotografia meravigliosa, che propone i colori cupi e oscuri, offuscati dalla nebbia, ma non per questo meno belli, che riflettono l’interiorità di chi avrà anche sbagliato, straziato, aperto ferite inguaribili, ma non per questo non ama e non soffre.

Un Alfredo Castro grande come sempre, nel ruolo di uno dei preti reietti, e un canto tetro e dolorosissimo che accompagna l’ineluttabilità di una condizione per il momento ancora senza appello e senza speranza.

E il desiderio di ringraziare a lungo e ripetutamente Pablo Larraín per tutto questo.

Roberta Girau

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