Murinedda mia annat a sa esta/e su curittu s’imprestat/ohi! ite bella vantasia (Murinedda, A boch’e ballu)[1]
La storia della poesia in lingua sarda è fatta di molte ripetizioni. Esistono volumi e tomi di singole raccolte e antologie. Una delle più importanti è Il meglio della poesia in lingua sarda, uscita la prima volta nel 1975 per le Edizioni della Torre, con presentazione di Michelangelo Pira, e da allora continuamente ripubblicata. Oggi c’è internet con diversi siti. Basta entrare, magari in Google e verificare l’abbondanza di link, quelli che permettono la navigazione dentro un autentico pianeta: nonostante tutto ancora privo di unitarietà e di progetto comune. Quell’unitarietà d’intenti che sembrava esistere e muovere da riviste di poesia in sardo che furono famose, da “La Stella di Sardegna” a “S’Ischiglia”, oggi c’è “Lacanas”, e su cui si esercitarono i nostri mazzores. Se non lo fecero loro furono i loro ammiratori a farceli finire, a pubblicarli. La poesia sarda, ma non è caso unico al mondo, porta dentro quest’ansia di essere nominati e conosciuti, famati. Una volta entrati nella memoria collettiva della rete nazionale, intendendo con questa sas nassones di cui parla sempre Pira[2], non se ne esce più. C’è l’esigenza, l’urgenza de s’ammentu[3], ad andare di pari passo con il desiderio della nominazione.
La poesia in lingua sarda è quindi connotata e denotata dalla capacità di memoria, di retentiva[4]. La memoria è insita nella facitura della poesia, specie nell’oralità, dove la rima funziona e fa da garante. È la memoria uno strumento ma anche il codice comune dei conoscitori di poesia, degli intenditori, degli appassionati che nella rete dell’oralità poi fattasi scrittura hanno riconosciuto la loro scuola, la loro alfabetizzazione permanente al sardo e all’universo mondo.
Jeo mi naro Remunnu
de Locu su sambenatu
su prur mal’affortunatu
chi b’est naschitu in su munnu[5]
Così Remunnu ‘e Locu, Raimondo Delogu, poeta bittese, analfabeta. La rima è il poeta, la persona stessa, l’universo di appartenenza, la durata nel tempo.
Ne esistono ancora oggi, in era internet, di queste persone che ti chiedono se conosci questo o quel poeta, minore oppure “classico”, Piras, “Cupeddu”, per dire Cubeddu, Tucconi, Barore Sassu, Pirastru. Di questi minori e classici io sentivo i versi, trent’anni fa, nei cantieri bracciantili, in soste di lavoro e di fatica, recitati a una o più voci, a tratti senza soluzione di continuità: “Pirastru chi t’a fattu sa natura, mai as a esser cibu pretziatu, si ti annat male custa putatura, restas unu pirastru irmuzzurratu“[6]. Oppure: “Si chin mecus ti la zogas s’arva cana, a tuddu tuddu tota ti l’ispilo“[7]. A dire della bravura di uno ma anche della capacità di risposta dell’altro. Era come assistere alla riproposizione di frammenti oppure intere gare poetiche in un ambiente diverso dalla sagra paesana o dalla festa patronale. Capannoni industriali fungevano da nuove cattedrali dove risuonavano le parole-canto di Remundu Piras per i dispersi in guerra:
Nenaldu sun tres annos chi prego
pro sos dispersos de custa dimora[8]
Tramandare poesia è come rinnovare passaggi da un tempo a un altro.
Servono molto, nel tramandare, la musicalità, il suono. La musicalità è un’altra delle cose insite nella poesia sarda, un codice di garanzia efficacemente evidenziato tra l’altro da una messe di esempi nel bel libro di Salvatore Tola sulla poesia dei poveri[9], così viene chiamata la poesia dei sardi. Significativo che nella coperta del libro ci sia tziu Antoni Cuccu, editore e venditore ambulante di poesia, figura classica come i libri della sua biblioteca. Cuccu protestò per quell’immagine. La sentiva come un’usurpazione, una violazione. Ma che lui volesse o no, anche quell’immagine serviva e serve a dare il senso del paese portatile che la poesia dei sardi comporta. Tziu Cuccu è rappresentativo dell’idea girovaga che la poesia si porta dentro. Cantava Crapinu, padre di Michelangelo Pira: canno via giovaneddu, ligeri ‘e cherveddu, e a domo non fachia ghiratura…[10]
In questo attacco c’è un segno dell’ universalità del poetare. “Via” e “giovaneddu” non sono dette e scritte in bittese, che è la lingua di Crapinu, ma nel logudorese estensibile, uno degli altri codici accomunanti i poeti e il poetare, la forza di comunicazione della poesia dei poveri. Del logudorese come lingua poetica per antonomasia classici sono gli esempi, tra Otto e Novecento, di Peppino Mereu e Montanaru, tonarese e desulese, quindi campidanese-parlanti, che sentono l’esigenza di poetare in logudorese: la fontana di Galusé e sa lantia[11] de sa mina, la miniera, altro luogo condiviso di tanta poesia sarda, specie del Novecento.
Tornando alla musicalità, si pensi a quanta poesia cantano ed esportano oggi sos tenores di diversi paesi della Sardegna, facendo diventare fenomeno globale quanto prima circuitava in una “universalità” solo sarda. Quasi si concretizza l’auspicio, mai avveratosi per sé, di Remunnu ‘e Locu: “S’aio ischitu juches pinna, dia aer fattu vrigura in cudd’ala de Sardigna“[12]. Al posto de sa pinna, de su donu de s’iscrittura, è qui la voce, su cuncordu de sar voches[13], a tramandare la poesia. Ancora sintomatico che due tra sos tenores di Bitti, siano uno segnato dal nome “Remunnu ‘e Locu” e un altro “Mialinu Pira”, appunto Michelangelo Pira, figlio di quel Crapinu che cantava alla luna, universale segno di poesia: “Pruite no’ mi cumparis giara luna, in custa terra povera e oscurada“[14]
A vederla come campo d’indagine, la poesia in sardo presenta molteplici agganci ricostruttori di una storia che è della poesia e di altro. Ci sono l’interno, l’interiore, e l’esterno, il circuitare nostro e l’estendersi fuori, il confronto. Pensate a Gavinu Contini, “su pius mannu“[15], che sbarca a Livorno e subito viene affrontato da un poeta locale: anche lì versificavano secondo una schema analogo alla gara poetica in sardo, basandosi sulla retentiva e sull’immediata comprensibilità. Il livornese sfida Gavinu perché sa chi è Gavinu. È una storia paradigmatica e io questa storia paradigmatica e “universale” l’ho ricostruita sulla retentiva di Bustianeddu ‘e Nennu Varadda, Sebastiano Sanna, mio suocero, che come altri della sua età ne sapeva molte di poesie a memoria: una miniera inesauribile.
Attacca il livornese:
Benvenuto poetuccio di Sardegna
dimmi che consumo fa la legna.
E Gavinu:
Pesi la legna poi il consumo
la rimanenza se ne va in fumo.
Incalza il livornese:
Dimmi da dove arrivò il primo uccello
dimmi da dove veniva il pappagallo
dimmi chi commise il primo fallo
dimmi chi insanguinò il primo coltello
dimmi chi domò il primo cavallo
dimmi chi domò il primo vitello
dimmi chi portò la prima soma
dimmi chi per primo tracciò Roma.
Questa la risposta di Gavinu:
Dall’Africa veniva il primo uccello
dall’America arrivò il pappagallo
Adamo commise il primo fallo
Caino insanguinò il primo coltello
San Giorgio domò il primo cavallo
Isidoro domò il primo vitello
fu l’asino che portò la prima soma
e Romolo che per primo tracciò Roma.
Come in un classico botta e risposta, tra cantadores. Da notare come la stessa poesia possa essere ritrovata in una qualsiasi raccolta di “poesie di carbonai” toscani. Forse è questa la vera origine. Solo che la diffusione della poesia in terra sarda, prima orale e poi scritta, necessitava di un eroe che ne incarnasse lo spirito di contrasto. E questo eroe, coevo dei primi disboscatori toscani venuti in Sardegna, doveva avere tutte le caratteristiche che solo “unu poeta mannu” come il silighese Gavino Contini poteva possedere. Aveva la risposta sempre pronta, sano o ubriaco che fosse.
Sas campanas sonade a sonu sardu
chi las intendada ogni cittadinu
chi a sa festa de Santu Lenardu
est arrivadu Contini Gavinu
iscusade si mi at dadu a tardu
ca mi fiat lontanu su caminu
però su diciu antigu narat gai
menzus chi arrive tardu chi non mai[16].
La canta, bene, su Cuncordu “Santu Juvanne” di Gavoi.
Nel gioco degli interscambi, per tornare all’assunto, si attribuiscono magari a Remunnu ‘e Locu quanto forse è di Gavinu, cose del tipo:
Tricchi tracca lu tzoccas su voette
ancu ti mogliat su caddu in caminu
cant’a mie ar datu unu luminu
gai ennas unzas de tzarrette[17]
Sull’estensione nel fuori della poesia sarda possiamo innestare tutta un’altra serie di frammenti. Cose scritte e altre no, trascritte nel tempo a evidenziare tematiche che la poesia canta. Temi i più disparati. Per esempio la pigrizia e il sesso in accezione paesano-picara, dove il confronto si fa tra diverse culture, etnie, all’interno di una cultura che l’occhio esterno vede come unica. Ci sono la poesia e i suoi contrari.
Un tale, dice la vulgata, in un paese, in una biddafraigada[18] del Logudoro o del Campidano, voleva essere considerato poeta. Una volta salì sul palco per la festa patronale. Si accompagnava con la chitarra e così iniziò: “In sa matta ‘e su lau, cantat su ciruliu“[19]. Ma non andava avanti. Era stonato. L’aria fu solcata da pomodori, uova andate a male e altro. Il poeta-non poeta fu fatto scendere subito dal palco. Analoga sorte, nella storia non scritta, capitò anche a poeti “famati”. Ho riportato qui l’episodio per dire come la poesia, che è elemento di comunicazione, possa anche intendere la bollatura della diversità e del diverso. Più di vent’anni fa abbiamo raccolto e pubblicato, con Giulio Albergoni le poesie che a Bitti venivano composte e cantate contr’a sos remitanos, contro gli umili e i reietti del paese, ammassati nel vicinato di Cadone. Versi che sono godibili e terribili, del tipo: “Si in Cadone ti aches unu amicu, ides chi de sa gana non bi moris, ca si enis in mancantzia ‘e tricu, petis su piaghere e ti vavorin“[20]. Questo in un vicinato dove la realtà era sa gana, la fame, Mastru Juanne, che è tutto un altro innesto poetico patrimonio delle intere Sardegna e sarditudine[21]. Per umiliare gli umiles si mescolava il sardo “povero” con i codici “culti”: “Ego sum Funis vrate a Isteveneddu e a sa nobile dama Carianedda, sambene ebreu de Archibuseddu e de Funis Archibugis Mariannedda, istirpe rara antica e valorosa chi como regnat in Garga Umosa“[22] Sa garga è la tana, umosa, di fumo. Da notare che di Cadone era anche Remunnu ‘e Locu, quello che dà nome ai uno dei tenores globali. A Cadone, al posto del vicinato c’è oggi una piazza e nella piazza una stele dove c’è scritto: “A Remunnu ‘e Locu, poeta chi durat, in sa cutina de un’istoria, a tempos de tzente chene sorte, preta supra terra de umu, dae s’iscuru sa luche“[23]
Sulla rimitania estensibile come fulcro del tramandare poesia e conseguentemente della poesia come “centro”, ho scritto una volta un pezzo, in un ciclostilato paesano. Non partivo da Remunnu ‘e Locu ma da Peppino Mereu, “poeta de sa remitania“[24]. Su questa figura classica di poeta maledetto, paesano ma pur sempre maudit, facevo convergere nomi e temi dell’anticlericalismo, della contestazione, della satira e della rivolta, anche della rivoluzione: Ignazio Mannu, Melchiorre Murenu, Diego Mele, prete, e il suo “Antoni ‘e Paduanu chi sos cherveddos da ti lampana che arvata“[25], fino alla tragica esperienza di Salvatore Poddighe, la sua Mundana cummedia che ha un incipit tremendo da dies irae mozartiano e verdiano: Comente sos vulcanos fumu e fogu mandan dae sas visceras insoro, de gai sos poetas dana isfogu a cussu chi sentini in su coro[26]. Sas visceras insoro, de sos poetas, sono davvero carne e sangue, ragione e sentimenti, ricerca lessicale e indicazione di metodo.
Ci sono il fuoco e altre tematiche nella poesia. Tutti i classici sardi, dal cinquecentesco Araolla a Lobina-Masala del terzo millennio, questi ultimi due bilingui, muovono dentro schemi codificati, siano questi la metafora esopiana o fedriana, oppure la poesia sociale che raccoglie terra, disisperada, e abbas, luadas[27], e cieli, invasi di aura sardonica. Ci sono ripetizioni ma delle ripetizioni bisognerebbe rilevarne la capacità di comunicare: le affinità e i contrari, le convenzioni e le rotture, il qui e ora, il progetto.
La poesia in sardo ha ragione di esistere e stare in retentiva se si fa racconto. Soccorrono ancora i classici. Per esempio Gerolamo Araolla che canta dei martiri turritani (1582), Pietro Pisurzi e le sue metafore de s’abe e de s‘anzone[28], Efisio Pintor Sirigu del femu cassadori[29] e, ancora centro di raccolta e di emanazione, padre Luca, al tempo dell’Arcadia sarda, nell’Ottocento, in ritardo rispetto all’Arcadia della poesia in italiano. Padre Luca (1748-1828) che “sor de Bitti“, quelli di Bitti, chiamano “padre Solle“, dal luogo in cui il poeta banditava, alla macchia: “Pro istampare una cuppa so’ bannidu, pro cussu nche so’ voras dae Pattada. Jeo no’ sento sa cuppa istampada, ma su vinu chi appo perdidu”[30]. Che è una metafora. Il poeta-prete è costretto a banditare per avere violato una donna, una ragazza. Padre Luca è il poeta delle metafore. Passa dalle pene d’amore all’apologo. “Discuret su leone seriamente, a sa vera intimare aspra battaglia e pessat pro destruire sa canaglia cantas troppas bi diat inviare e concruit chi solu at a bastare jitende in cumpagnia unu molente“[31]. L’eterna favola dei ruoli del leone e dell’asino. È qui che la poesia remitana mostra la capacità di passare da oggetto osservato a soggetto osservante. Dice Edgar Morin: “La metafora è un indicatore d’apertura del testo o del pensiero a diverse interpretazioni o reinterpretazioni e a ragionare con idee personali di un lettore o di un interlocutore”[32]. Bisogna stare attenti nella dizione, nel teatrare, nel ripetere i versi[33].
La poesia sarda è questo continuo mettere in relazione alto e basso, il profondo e il superficiale, le cose del tempo perduto e sempre s’oriolu, la fissazione, l’ossessione del sesso. Poesia sarda è lu tempu passatu o paldutu[34], per giocare con don Baignu Pes, ma anche iterazioni boccaccesche, picare. Circola ancora dalle nostre parti una composizione. Narra di una vedova che fino all’altro ieri era in curruttu[35] e che invece adesso si mostra in con il fazzoletto bianco in testa mentre setaccia la farina. E canta:
Che a Nicola meu
non bi n’at in s’ereu
da l’ischit manizzare sa pistola
che a su meu Nicola[36].
Il tema è chiaramente senza soluzione di continuità. Battore ‘Arina, poeta anticlericale, inventore de “sar oche son de Chelleddu e su inari a su probanu“[37] ma anche di un inferno “prenu de vinu nieddu“[38] (il paradiso degli ubriaconi), aveva un servo, un ragazzo, che si vedeva non era un fulmine di guerra. La sorella di questo servetto aveva avuto un bambino pur non essendo sposata. Insomma aveva fatto su burdu e adesso andava a sposarsi con un altro, non il padre del bambino. Il servo doveva andare alla cerimonia ma non sapeva come presentarsi e così chiese consiglio a Battore ‘Arina che gli fece imparare a memoria una poesia. Il servo così si presentò a colui che doveva sposare sua sorella:
Ja la aco sa presentata
ca mi toccat de dovere
ma si b’at camba corcata
non colas comente cheres[39]
Era cervo, cornuto, il referente del messaggio davanti a cui il servo recitò senza sapere il significato nascosto. L’altro capì e chiese: “Chi te l’ha insegnata la poesia? Battore ‘Arina, vero?”. Il servo disse sì. E il cognato: “Vieni, vieni, siediti, accomodati e mangia.”
C’è anche il personaggio de su sorteri da cantare in poesia. Su sorteri a Dorgali è su vachianu, lo scapolo, il non ammogliato:
Ite vita chi achet su sorteri
chi’ sa boria a su primu manzanu
canno s’ischitat chin sa pinna in manu
chircat e no’ acatat su tinteri[40]
Per dire dei passaggi e del tramandare, la poesia la raccontò a un altro interlocutore tale Felle di Dorgali, mastru ‘e carros[41] (oggi, se fosse vivo, dovrebbe avere più di 100 anni). Felle la raccontò a Oschiri negli anni Quaranta o Cinquanta del Novecento e io che l’ho registrata l’ho sentita il 14 gennaio 2006, sabato, a Bitti, e chi me la recitò mi chiamò da parte perché le donne non sentissero.
Il codice bilingue è un’indicazione di percorso che qui esemplifico a provvisoria conclusione di discorso. È la sintesi di un mio servizio uscito nel numero 209 della rivista “Poesia”, ottobre 2006.
Sas benennidas siadas, rundinas, a domo mia! Siate le benvenute, rondini, nella mia dimora. Sono frammenti di versi, famosi tra i sardi, di una poesia di Paolo Mossa (1818-1892), “un poeta di paese”. Le rondini portano il senso dell’avvento ma anche del migrare, condizione storica la seconda, specie nel Novecento, di molta gente sarda. Come cantare questa condizione? Come poetare? Il Novecento sono i cent’anni dove più intenso si avverte il passaggio dall’oralità alla scrittura. In questo passare, un fantasma agita la poesia. È la questione della lingua. Ha lasciato scritto Michelangelo Pira (1928-1980) che è pur sempre un antropologo di scuola impropria, in Sos sinnos: “Jeo appo duas limbas e duas animas.Io ho due lingue e due anime, la sarda e l’italiana, e quando parlo in sardo rinnego la metà di quello che sono, l’italiana; e invece quando parlo in italiano rinnego la metà sarda, di modo che non sono mai un uomo intero se non quando nel parlare mischio cose di una lingua e cose dell’altra come se insieme l’italiano e il sardo fossero per me una lingua sola”[42]. È un dilemma, una lacerazione. È una condizione. Anche Sebastiano Satta (1867-1914), avvocato-poeta di ascendenza carducciana e di spirito socialisteggiante, deve a questa appartenenza. Il corpus delle sue cose in sardo sostiene l’intera tramatura dei Canti, in italiano. Gli dà identità, lessico e suono. Esempio significativo è quello della poesia Sa ferrovia, senza tempo preciso di composizione se non quello, annota Gonario Pinna nella Antologia dei poeti dialettali nuoresi da lui curata, “in cui fattori esterni di progresso già penetrano nella compattezza immobile e secolare della società sarda quali primi elementi di rottura”[43]
In questo poetare, sempre si avverte l’immanenza delle duas limbas-due lingue. Canta uno dei più significativi poeti della sarditudine, Francesco, o Cicito o Frantziscu Masala (1916 – 2007): Sa terra nostra est custa disisperada nurra de montes e nuraghes, la nostra terra è questo disperato mucchio di monti di basalto e di nuraghi neri. Il refrain masaliano passa in molti altri poeti, il nuorese Romano Ruju (1935-1974) che a sua volta incentra il discorso sul connottu-conosciuto e, per contrari, sulla usurpazione di questo connottu. I prinzipales mangiano, consumano, spolpano e niente lasciano ai laribiancos, i labbra-bianche dalla fame: è l’ossessione di Masala, il suo fare poesia e racconto e romanzo. Nel codice bilingue della “poesia politica” che si confronta con l’amato-odiato se stesso sono pure Leonardo Sole, glottologo, drammaturgo, adattatore nel campo della sarditudine della Fuente Ovejuna di Lope de Vega, Franco Cocco, poeta di intonazioni ritmiche dentro la petrosità e i navigatori per oscuranze di luce, ossimorici, Ignazio Delogu e Giommaria Cherchi. Trafficano anche, come traduttori, la poesia di l’althri, la poesia degli altri. Sono tutti collocabili in quella cosmografia che Salvatore Tola chiama appunto “la poesia dei poveri”.
Custa inoke est sa terra, questa è qui la terra. Significativa l’insistenza sull’aggettivo dimostrativo “custa” e sul sostantivo “terra”. Sono elemento portante, base d’appoggio, luogo di partenze e di ripartenze. Kusta, inoke, es’ sa terra“, sostiene la pena di Antonio Mura (1926-1975), restu pedrosu de tottu s’inkunquassu de prima essu su dillùviu[44]. Antonio Mura, figlio di Predu-Pietro (1901-1966), “operaiu di luke soliana“[45] per sua stessa definizione, è poeta bilingue. Poeta figlio di poeta, conoscitori entrambi del rame e delle terre fredde. Predu Mura fece il ramaio girovago, migratore interno, e il soldato nell’Africa orientale prima di stabilirsi definitivamente a Nuoro, in una officina non troppo discosta dalla cattedrale. L’officina del rame e il laboratorio di poesia coincidevano come luogo. “Donzi corfu ‘e marteddu allughio unu sole“[46] dice il poeta. Lo stesso sole che manca nell’esperienza di migratore di Antonio, incatenato alla fabbrica, come tanti altri sardi, in sas terras vrittas de su nord Europa[47]. Pedru Mura, che farà del nuorese la sua lingua di comunicazione poetica, proviene dal Sarcidano, la terra di Benvenuto Lobina (1914-1993), certamente una delle voci più alte e intense. Nella sua poesia il duro di kusta terra vivifica la memoria dell’acqua, un’altra delle costanti del Novecento poetico sardo: l’acqua e la sua assenza, le vie fluviali e la salinità del mare. “Terra lontana, a sera, le tue coste, si allungano sul cuore”, canta una Giovanna Markus. Ciascun poeta della sarditudine vede le acque con colori diversi. C’è una maniera elegiaco-sentimentale, con pulsioni erotiche, come nel gallurese Franco Fresi (1940). C’è il mare londoniano, arca abissale di morte per acqua, nel cagliaritano Sergio Atzeni (1952-1995). Il mare come veicolo di migrazioni e il mare che riporta, facendosi nuovamente acqua dolce, alle terre di mezzo e a quelle dell’interno. “O Flumendosa”, canta Lobina, “quando mai, ti potrò dimenticare, anche se il sole ed il vento, delle strade del mondo hanno asciugato i miei panni, intrisi della tua acqua?”
Tante le strade del mondo diramate e attraversate dalla sarditudine come cosa a sé stante ed elemento universale.
“Ci sono glorie triangolari, oltre le mura dei re”, intona il lussurgese Giovanni Corona (1914-1987), svolgendo il tema Paride-Elena-Menelao. Gloria e tutto intorno “buche di trincee”, ” il vuoto della morte”. La guerra è un’altra delle costanti della sarditudine. Per quanto possa apparire paradossale è nelle trincee del Carso, è durante il macello che fu la “grande guerra” del ’15-’18 che i sardi si riconobbero tra di loro e scoprirono che il nemico non era il vicino di paese ma un altro, di una più vasta nazione. Il sentimento del dolore privato si fa sentimento universale, in un cosmopolitismo comunque non di maniera. In duas limbas, Francesco Masala dà voce all’indignazione, “subra sa losa“, sopra la tomba di Salvador Allende, “ucciso” dai “terratenientes di Antofagasta”. Modula il verso su quelli del conterraneo, di terra e d’acqua, Sergio Manca di Mores (1922-1958), prima ancora che su Neruda. “Non credi?”, così nella poesia di Manca “l’uomo” parla in sogno con un favoloso “gallo blu” di una e tante infanzie. “Sono come il marinaio, che ha fumato la pipa in ogni porto, in questo mondo senza paralleli, alla ventura; che torna all’approdo, dell’isola a vedere un pezzo d’orto”. Partenze e ritorni. Migratziones. Le canta il poeta-operaio Antonio Sini e, nei suoi “fuochi di paglia”, sulla soglia dei cent’anni, Efis Caria (1903-2005). Migrazioni e carene, corpo e anima di emigranti. Nel segno della continuità poetica di due lingue-due anime, Michelangelo Pira scrive in sardo un testo, S’emigranzia, di forte impatto, chiamandosi appunto Miali de Crapinu, Michele figlio di Crapinu, soprannome del padre.
Ancora nel codice bilingue, dove il sardo fa da lingua di base, simulato e dissimulato, è Giovanni Dettori (1936). Mari, fiumi, coro de iscuricore, cuore di tenebra. C’è il fuoco nella poesia in lingua sarda ma ci sono anche le acque. Il Flumendosa lobiniano alimenta il Tirso di tante altre metafore, la parte navigabile e quella lutulenta. Tra oralità e scrittura, Dettori è poeta delle scarnificazioni: il dolore che più tremendo non si può di Canto per un capro (1986), dolore del disterro, che vuol dire lontano dalla terra, e dolore della perdita irrecuperabile. Altrove, in Dettori è il luogo-tempo del ritorno a farsi sentire, successivo alla desertificazione e alla discesa agli inferi. Ma non si tratta di una risalita. Quanto piuttosto della perdita della sofferenza dentro le correnti e i colori del vento. Ne viene fuori un tempo non immemore delle case, delle strade, dei riti-miti dell’infanzia. La memoria del sé bambino a sua volta si intera con quella universale di altri luoghi-tempo. Questi possono essere ancora Bitti e il sertão di Guimaraes Rosa, le sezioni di partito oppure le vie di Torino, a squadra e scalpello, dove nessuno dei passanti riesce a sapere e capire “la disperazione di un poeta meridionale”, la sua abbagliante cupezza. Il tutto lavorato da parole insieme di sabbia e diamante, rima petrosa a valenza scarnificata e scarnificante.
Tutto è avvenuto, tutto continua ad avvenire all’insegna delle migrazioni, nel dualismo linguistico. Lo rilevava ancora Michelangelo Pira nel dare avvio alla collana dei più grandi poeti in lingua sarda[48]
Acqua e ancora migrazioni. E poi terra di nuovo. Su campu, s’ortu: il campo, l’ orto. Intratu nch’est su riu e m’at distruttu s’ortu[49]canta un attitu, che è lamento funebre. E l’arena. In pieno Novecento, Antoninu Mura Ena (1908-1994) sostiene con il suo Jeo no ‘ippo torero, un canto totale. Io non ero torero mette insieme appunto s’attitu, millenario canto funebre delle prefiche, con le suggestioni del “lamento per Ignacio” di Garcìa Lorca. Il “particulare” dà voce e volto alla stagione totale. Rivela il sentimento di una lingua, la sua durata nel tempo, la sua capacità di tessere il qui e ora, il passato e i giorni a venire. Poi ancora migrazioni e acque.
La parte finale del discorso viene ripresa e ampliata in Bilinguismo e migrazioni. Poeti sardi del Novecento, “Poesia” 209, Ottobre 2006, 17-30.
In alto un ritratto a matita, opera di Antoni Peppe Piras, di mio nonno Gasole. Morì per l’esplosione di una bomba nel novembre del 1924.
[1] Murinedda mia va alla festa/e il corsetto si impresta/ohi! che bella fantasia! (Murinedda, A voce di ballo).
[2] Sa nassone come nucleo familiare, come clan, che con altre nassones stabilisce relazioni come tra uno Stato nazionale e un altro.
[3] Ricordo, memoria.
[4] Ancora memoria, nel segno del ritenere, tenere a mente.
[5] Io mi chiamo Raimondo/Delogu il cognome/il più mal fortunato/che è nato al mondo.
[6] Perastro (si gioca sulla coincidenza tra cognome e frutto) che ti ha fatto la natura, non sarai mai cibo da apprezzare, se ti va male questa potatura, resterai un perastro mal combinato.
[7] Se con me te la giochi la barba bianca, tutta quanta te la sradico pelo per pelo.
[8] Leonardo sono tre anni che ti prego/per i dispersi di questa dimora.
[9] Salvatore Tola, La poesia dei poveri. la letteratura in lingua sarda, Cagliari, AM&D, 1997.
[10] Quando ero giovinetto, leggero di cervello, e a casa mai facevo ritorno…
[11] La lampada.
[12] Se avessi saputo tenere la penna, avrei fatto bella figura oltre la Sardegna.
[13] L’accordatura delle voci.
[14] Perché non mi compari chiara luna, in questa terra povera e oscurata.
[15] Il più grande.
[16] Le campane suonate a suono sardo/che le senta ogni cittadino/che alla festa di San Leonrado/è arrivato Contini Gavino/scusatemi se ho fatto tardi/perché era lontano il cammino/però il detto antico dice così/meglio che arrivi tardi che non mai.
[17] Tricchi tracca fai suonare lo scudiscio/ti possa morire il cavallo per strada/quanto a me hai dato da accendere/possa così vendere once di zerro.
[18] Paese fatto di case.
[19] Nella pianta d’alloro canta l’uccellino.
[20] Se a Cadone ti fai un amico, vedrai che non morirai di fame, perché se vieni in mancanza di grano, chiedi il piacere e ti favoriscono.
[21] Salvatore Tola, Il cavaliere della fame. Mastru Juanne nella poesia sarda e nelle tradizioni popolari, Nuoro, ISRE, 2011.
[22] Io sono Funis, fratello a Isteveneddu e alla nobile dama Carianedda, sangue ebreo di Archibuseddu e di Funis Archibugis Mariannedda, stirpe rara antica e valorosa che adesso regna a Garga Umosa. L’intera composizione di Cosimo Sanna si trova in Giulio Albergoni, Natalino Piras, Quale memoria pro so’remitanos. L’universo concentrazionario di Cadone e Garga Unosa. Testi di Remunnu e Locu, Cosimo Sanna, Gavineddu Sanna Pighinetti, Primavera e Tottoi, Bitti, Liberatzione, 1983, pp. 39- 41.
[23] A Remunnu ‘e Locu, poeta che dura, nella dura terra rossa di una storia, al tempo di gente senza sorte, pietra sopra terra di femo, dallo scuro la luce.
[24] Natalino Piras, Peppino Mereu poeta de sa rimitania, “Punto d’incontro”, 1978.
[25] Antonio da Padova che hai la fronte lucida come vomere. È un passaggio di un famoso ribaltamento in profano dei gosos, laudi sacre. Qui le invocazioni sono rivolte a Sant’Antonio da Padova perché preghi e interceda “per il lodeino” inteso come abitante di sperduta landa. Si dice che a comporre la lauda non sacra sia stato il bittese Diego Mele, poeta satirico, che fu parroco anche a Lodè, dove la chiesa è dedicata proprio a Sant’Antonio da Padova. Sulla storia di questa lauda vedi nella vasta bibliografia Diego Mele, Satiras, con due composizioni inedite, a cura di Salvatore Tola e con un contributo di Bachisio Porru, Cagliari, Della Torre, 1984.
[26] Come i vulcani fumo e fuoco mandano dalle loro viscere, così i poeti danno sfogo e quello che sentono nel cuore.
[27] Disperata, e acque, avvelenate.
[28] Dell’ape e dell’agnello.
[29] Ero cacciatore.
[30] Per aver bucato una botte sono bandito, per quello sono fuori da Pattada. Io non sento la botte bucata, ma il vino che ho perduto.
[31] Progetta il leone seriamente, di intimare aspra battaglia alle fiere e pensa per distruggere la canaglia quante truppe dovrebbe inviare e conclude che solo può bastare portando in compagnia un somaro. Molente perché l’asino gira sa mola, la macina.
[32] Edgar Morin, La testa ben fatta, tit. or.: La tête bien faite, ed. francese, Paris, Seuil, 1999, 1ª ed. italiana, Milano, Raffaello Cortina, 2000. La virgolettatura riguarda una citazione di E.N. Knyazaeva e S.P. Kurdymov all’interno del libro di Morin, 94.
[33] Un codice di stilistica e di retorica della poesia in lingua sarda è: Andrea Deplano, Rimas. Suoni, versi, strutture della poesia tradizionale sarda, Cagliari, Artigianarte, 1997.
[34] Il tempo passato o perduto.
[35] Lutto stretto.
[36] Come Nicola mio/non se ne trova nella discendenza/la sa maneggiare la pistola/come il mio Nicola. È il ritornello della canzone della vedova per le prodezze amatorie del “suo Nicola”: un pretendente altrimenti destinato all’eliminazione. Invece l’ultima notte ha rivelato quanto è rimasto nascosto per tanto tempo. Dice la vedova al figlio venuto per uccidere “su meu Nicola”, secondo un precedente patto con la madre: “Si a Nicola toccas ti vesto in manos de zustissa“. Se tocchi Nicola ti consegno nelle mani della Giustizia.
[37] Le voci sono di Chelleddu (il capo corista) i soldi vanno al parroco.
[38] Pieno di vino nero.
[39] Bene faccio la presentata/ché mi tocca di dovere/ma se c’è fronda coricata/lì non passi a tuo piacere (letteralmente: come vuoi).
[40] Che vita fa lo scapolo/che nella boria del primo mattino/quando si veglia con la penna in mano/cerca e non trova il calamaio.
[41] Maestro di carri.
[42] Michelangelo Pira, Sos sinnos, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1983; trad. it. di N. Piras, I segni, in “Ichnusa” n. 7, ottobre-dicembre 1984, inserto; testo sardo e traduzione italiana a fronte ora in Sassari, Biblioteca della Nuova Sardegna, 2003.
[43] Gonario Pinna, Antologia dei poeti dialettali nuoresi, Cagliari, Edizioni della Torre, 1982.
[44] Resto petroso di tutto lo sconquasso prima del diluvio.
[45] Operaio di luce solare.
[46] Ogni colpo di martello accendevo un sole.
[47] Nelle terre fredde del nord Europa.
[48] Il meglio della grande poesia in lingua sarda, [Gerolamo Araolla, Pietro Pisurzi, Francesco Ignazio Mannu, «Padre Luca» Cubeddu, Don Baignu Pes, Diego Mele, Efisio Pintor Sirigu, Melchiorre Murenu, Paolo Mossa, Peppino Mereu, Pompeo Calvia, Antioco Casula «Montanaru»], Cagliari, Edizioni della Torre, 1ª ed. 1975. [Queste poesie di Michelangelo Pira, 11-14]
[49] Entrato è il fiume e mi ha distrutto l’orto.
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