Ogni volta che capita di vedere la gente in silenziosa contemplazione, io, non so perche´, mi sento meglio. Mi prende cosi’, che ci posso fare? Mi ricordo quando, piu´di dieci anni fa, vidi il Taj Mahal. Bianco, ricamato e funereo sotto la cappa d’afa che stagnava nelle citta´di Agra. Davanti, in ordine sparso, la persone dolcemente imbambolate. Gli avresti potuto fregare gli averi. Anche a me, naturalmente, ma avevo la faccia di uno che ha poco. Mi e´di nuovo capitato di recente, proprio durante questo viaggio, davanti a Macchu Picchu. E’ accaduto anche stamattina, anche se con meno devozione popolare, al Colcha canyon. Ci siamo arrivati da Arequipa, con la solita fatica dei posti giu´di mano, seppur discretamente collegati per gli standard del Peru´. Ieri in vaggio, con salita di nuovo a 5000 metri. Stamattina ancora in viaggio, lungo una delle valli piu´sacre del Peru´, meno note a noi Europei e meno visitate. Ormai uno ha gli occhi pieni di tutto quello che ha visto, si dovrebbe forse scaricare la RAM, e ti chiedi che effetto ti fara´ l’ennesima meraviglia.
Il Colcha canyon si apre tra due catene di vulcani, alcuni innevati, altri indistinguibili da una montagna qualunque. Il primo impatto e` davvero il senso del sacro. Sembra di fare un viaggio indietro nella storia d’America. Qui si sono date il cambio civilta´ ben piu´antiche di quella inca, spazzate via l’una dopo l’altra dal clima difficilmente conciliabile con la necessita´ di nutrirsi, ossia di coltivare. Di loro restano i terrazzamenti. Non pensavo mi stupissero tanto. Ricoprono le montagne e ne seguono i profili. Danno colore. Trasformano le montagne in qualcosa di umano senza violentarne l’essenza e il silenzio. Un grande esempio di come il lavoro dell’uomo, finalizzato al proprio sostentamento, possa interagire con l’ambiente arricchendone la bellezza e lasciandone intatto il mistero e la spiritualita´. Di queste civilta´ che hanno preceduto l’invasione europea non resta piu´ molto: tutto inglobato, divorato, digerito, volato in via. Resta invece il loro culto della grande madre terra, che nelle terrezze si rivela ai nostri occhi in tutta la sua delicatezza.
Passando oltre, la valle si allarga e diventa profonda. Il colcha canyon, il piu´profondo - dicono – del mondo. E’ talmente profondo che nella mente non ci sta tutto e quindi sembra una ferita dai margini slabbrati, irta, di cui non si coglie per nulla l’effettiva dimensione. Tuttavia, sul fianco accessibile ai nostri piedi, ecco lo spettacolo della gente che guarda ammirata. Il canyon? No. Il volo del condor. Come al solito, arrivato sin qui, ero pieno di pregiudizi e mi dicevo: che vuoi che sia vedere un uccello gigante che vola. Sono sceso dall’autobus ed e´passato nel cielo. Leggerissimo, enorme. Il suo volo e´ famoso perche` non gli e´possibile, per la sua stazza, volare sbattendo le ali. Il condor e´come un aquilone, sale e scende fissando il fondo del canyon (alla ricerca di carogne, per essere meno poetici) affidandosi alle correnti d’aria. Prima uno, poi ne sono arrivati altri. Che dire… ci sono rimansto incanstrato anche io, come tutti. Li’, con gli occhi in alto, a guardare lui che non si curava di noi, davanti ad un precipizio coperto di fichi d’India e salendo di sterpi, di cactus, e salendo ancora di fiori e di alberelli, e salendo ancora di terra nuda e infine di ghiaccio.
Domani lasciamo Arequipa e cominciamo ad avvicinarci a Lima, visto che i viaggi non durano in eterno. Purtroppo! Dovremmo arrivare dopo domani a Pisco. I deboli di cuore mi scusino gli errori di ortografia, ma invece di scrivere un diario per me quest’anno scrivo qui e non rileggo mai.
Besos !!!!!!!