Proseguono qui, in ordine sparso, le mie riflessioni da commissario esterno agli Esami di Stato. In procinto di correggere le prove scritte, mi sono proposto di cominciare a riflettere sul colloquio, ovvero sull'esame orale, che dovranno sostenere ragazzi che non ho mai avuto in classe e dei quali, purtroppo, ho solo un'idea vaga.
Per grandi linee, un insegnante ha due possibilità. Una, quella che ho seguito finora, punta a verificare la comprensione generale, l'acquisizione di un "discorso" o, come si dice oggi, di una "narrativa" della disciplina (nel mio caso, Italiano e Storia). L'approccio mi sembra ancora buono, anzi ottimo, e si ricollega a quel tentativo di recuperare la nozione di testo, ovvero l'insieme, ma l'insieme organizzato al suo interno, e dialogare con il candidato in modo che si appuri a che livello di profondità i singoli dati sono correlati agli altri in un panorama da portare con sé.
Per quanto quest'ipotesi sia la più suggestiva, risulta poco funzionale quando si hanno davanti ragazzi che sono pressoché perfetti sconosciuti. Un approccio del genere rischia, infatti, di degenerare in una perfida forma di astrazione, alla ricerca di categorie cosiddette "universali" che - con uno sguardo critico e attento - hanno la loro indubbia utilità di strumento ermeneutico, ma rischiano di diventare fossili (e, come fossili, dati tra gli altri dati) nella mente dei ragazzi che non sono tenuti ad affrontare lo stesso tipo di studi vergati sul curriculum di chi li esamina.
È di gran lunga preferibile arrivare alle categorie universali, poco a poco, partendo dall'esperienza di testi concreti. Sia chiaro: non per l'abusata - e discutibilissima - formula di matrice strutturalistica della "centralità del testo", bensì perché i ragazzi si trovano di fronte una formulazione storica concreta, un dato, un oggetto nella sua forma di persistenza storica. Con la letteratura un testo (una poesia, un brano di un racconto ecc.) e con la storia un'immagine, una fonte, un'opinione formulata effettivamente da qualcuno in un dato momento: questi elementi possono essere la base di partenza per un colloquio.
In tal senso, però, il docente si trova a dover gestire una grande quantità di dati e il senso di rifiuto che ciò ingenera nei ragazzi: perché tanto nozionismo? Non sono stati già interrogati (ergo torturati) tutto l'anno? Cosa vuole ancora questo sconosciuto da loro? Checché gli alunni ne pensino, in buona percentuale, noi non chiediamo uno sforzo mnenomico fuor di misura, vogliamo solo vedere la capacità di muoversi, di recuperare i dati o di visualizzare quelli che mancano, di creare una mappa mentale delle nozioni di cui impadronirsi per avere un quadro completo. L'esame vuole avere ricadute sul modo futuro di apprendere, di memorizzare, di orientarsi in un mondo complesso.
Ma, ancora una volta, stiamo parlando degli esami: ovvero della fase finale di un intero ciclo di studi. Vero è, verissimo, che anche le verifiche devono avere un carattere formativo (e detesto quei colleghi che interrogano con l'aria del cassiere e che dileggiano - perché succede - chi anche in questo momento ne approfitta per dare consigli ai ragazzi su un migliore metodo di studio). D'altra parte qualunque dono il docente voglia fare al candidato, deve prima ascoltarlo e dargli la possibilità di mostrare i suoi punti forza e i suoi punti deboli, in modo da essere più concreti e generosi nel dialogo.
In questo modo, però, l'esame orale rischia di rivelarsi come un vero e proprio terno al lotto (con gran dolore per chi qui sta provando a ragionarci su). La componente "fortuna" ha un peso non piccolo al momento del colloquio al cospetto di sconosciuti, colgo solo l'occasione, qui, per dire ai maturandi che ciò esula da qualsiasi nostro tentativo di coglierli in fallo e che perfino la domanda (in apparenza o davvero) più casuale ha un suo senso proprio per cominciare a dialogare.
Quale che sia la scelta del professore (io punterò sulle esperienze e sugli incontri, su un patrimonio di cose concrete da "portare con sé", ma sempre con uno sguardo al "panorama"), l'esame lo fa il candidato: non perché suo compito sia quello di parlare ("purché si parli"), ovvero abbandonarsi a un intransitivo monologare, bensì perché il giovane deve dimostrare di sapere parlare con e parlare di: cioè credere nei propri interlocutori e nelle cose che sta dicendo. A queste condizioni, il colloquio non può che andar bene. Ed è quello che auguro di tutto cuore ai candidati che da qui a qualche giorno siederanno di fronte a me.
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