Non sarà un capolavoro, però è un libro che ti prende per mano, per accompagnarti attraverso l'orrore più indicibile della storia che abbiamo alle spalle, fino al ciglio dell'estrema miseria e dell'estrema grandezza dell'uomo, là dove sembra di scorgere una possibilità di risposta a ciò che in effetti è resterà sempre mistero, doloroso mistero.
E' questo che succede leggendo Il comandante di Auschwitz di Thomas Harding (Newton Compton), libro che racconta la vita in parallelo del criminale nazista Rudolph Hoss e dell'ebreo tedesco che, con la divisa dell'esercito inglese, alla fine della guerra riuscì a catturarlo.
Storia appassionante, coinvolgente, anche quella del cacciatore di nazisti. Ma come distogliere lo sguardo dal comandante di Auschwitz, dall'abisso senza fondo di un uomo che si è reso responsabile della morte di milioni di altri uomini, senza fare una piega, con la convinzione del lavoro fatto e fatto bene?
Rudolph Hoss, che voleva fare il missionario e finì per arruolarsi nelle SS. Che sognava una fattoria in campagna e volle un orto e un giardino per la sua casa con vista sui forni crematori. Che la sera tornava a casa dalla routine del massacro e leggeva fiabe ai bambini.
Rudolph Hoss, che con le sue confessioni dopo la cattura fornì prove decisive per inchiodare altri criminali nazisti, prima di essere impiccato in Polonia, in quello stesso lager di cui era stato comandante e boia.
Raccontò molto di sé, Rudolph Hoss, ma nessuna parola che possa davvero illuminare ciò che davvero lo ha fatto diventare ciò che è stato.