Ho appreso da una fonte autorevole quale sia la concezione del concetto di “cultura” che circola tuttora in Italia tra i cosiddetti intellettuali. Nella nostra tradizione italiana, scrive questa fonte autorevole, “cultura” vuol dire specificamente “cultura letteraria”, o tutt’al più “letterario-filosofica”. Il dato mi ha alquanto sorpreso. Credevo – ma a questo punto è più corretto scrivere: “mi illudevo” – che una tale visione del concetto di cultura fosse un residuato bellico, qualcosa che appartenesse a tempi remoti, alla preistoria dell’antropologia, o a quando Werner Jaeger scriveva, nella sua famosa ma anche e oramai antiquata Paideia (1936), a quando ancora s’intendeva il concetto di cultura come «l’insieme della propria creazione spirituale», e non come «l’insieme delle manifestazioni e forme di vita caratteristiche di un popolo», poiché questo secondo significato agli occhi di Jaeger aveva il merito di far decadere la parola cultura «a concetto antropologico meramente descrittivo», che ha il torto di non rappresentare più «un altissimo concetto di valore, un ideale consapevole». Insomma, quanto si parla di cultura il suo ancoraggio di base rimane quel fondale umanistico a cui s’appendono le proprie nozioni letterarie. Senza voler scomodare ancora una volta Gramsci quando in carcere denunciava, negli anni Trenta, il fatto che «l’intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano», pare che tutta la riflessione di pensiero sul significato di cultura, che parte da Nietzsche sino ad arrivare a Gehlen, sia trascorsa invano.
Insomma ancora una volta si fanno rientrare nel concetto di cultura soltanto le sue espressioni più consapevoli, la filosofia e la letteratura, magari un po’ d’arte e forse qualche espressione musicale, e si considera tutto il resto come una sorta di terra “primitiva” in cui possano scorazzare a piacimento antropologi e etnologi, i quali possono sì elaborare teorie sulla cultura, tenendo però presente che si riferiscono a una cultura di infimo ordine, a forme embrionali di cultura, che al contrario delle culture “alte” non hanno avuto la fortuna di svilupparsi e sono pertanto rimaste a uno stadio primordiale della consapevolezza. Lasciamo da parte quanto di “filosoficocentrismo” ci sia in una concezione siffatta, e pensiamo al fatto che non bisogna poi stupirsi quando un ragazzo crede che parlare di cultura vuol dire parlare di “libri”, di scuola, di esami e quindi di studio, come se tutto il termine comprendesse soltanto questi elementi. Vorrei avanzare qui un’ipotesi che è quasi una diagnosi: lo stato di arretratezza in cui versa il livello di conoscenze e di apprendimento della popolazione italiana credo che sia correlato propria a questa concezione “anacronistica” del concetto di cultura. Se il vertice della piramide intellettuale di un paese continua a credere che avere una cultura significa saper recitare a memoria qualche poesia di Leopardi, conoscere i nomi dei quattro o cinque scrittori più importante di un paese, magari sapere a memoria anche le cinque declinazioni della grammatica latina, rispondere a qualche quiz televisivo, allora vuol dire che il “declino” economico sarà inarrestabile. Se, invece, si diffondesse la concezione che bisogna intendere per cultura tutto ciò che è appreso e che non fa parte del nostro corredo istintuale, ossia tutte le risposte non predisposte, e quindi non innate, dai dispositivi cognitivi e prensili dell’attività umana, allora le cose potrebbero cambiare. Perché se si diffondesse l’idea che tutto ciò che intendiamo per cultura sia qualcosa che nel corso del nostro sviluppo motorio-cognitivo occorre apprendere, l’accento sarebbe posto sui meccanismi di apprendimento; inoltre, dal momento che ciò che bisogna apprendere ha bisogno di qualcuno che lo insegni, allora la dinamica apprendimento/insegnamento sarebbe posta al centro del problema. Non si tratterrebbe soltanto di imparare ad apprendere una lingua per recitare una poesia di Carducci, o ad apprendere a leggere e a scrivere per stilare un "tema libero". L’apprendimento/insegnamento riguarderebbe ogni aspetto della vita quotidiana, perché come recita un vecchio saggio popolare “nessuno nasce imparato”. Infine credo che una volta fatta propria una concezione della cultura intesa come apprendimento/insegnamento di risposte non innate, saremmo anche in grado di apprezzare le sofisticate e complesse “risposte” che l’umanità ha saputo creare ai suoi bisogni cosiddetti “spirituali”: ossia l’arte e la filosofia in genere.
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