Anna Lombroso per il Simplicissimus
Nutro una certa idiosincrasia per i riti dell’outing, della pubblica esibizione di inclinazioni legittime, ma tuttora ostacolate dalla cosiddetta morale comune, condannate dalle chiese, emarginate del perbenismo ipocrita. Ne ammiro il coraggio per carità, soprattutto se a mettersi a nudo non sono noti stilisti, cantanti rock che riempiono teatri e stadi, attori, icone cinematografiche, o politici che ne hanno fatto una bandiera anche a fini propagandistici e comunque una forma, positiva e utile, di moral suasion – che certe audacie si pagano più care nello sprofondo della Brianza, in attività artigianale del casertano, in famiglie piccolo borghesi di ogni latitudine.
Ma continuo a pensare che è veramente disumano che qualcosa di profondamente intimo, che riguarda la propria esistenza, debba essere oggetto di ostensione a fini simbolici e esemplari, che per rendere accettabile comportamenti peraltro leciti si debba ricorrere a un’autodafé, a una confessione, che reca in sé – se è vero che da noi tutti debbano dirsi cristiani, se l’Europa ha discusso per anni, tra le molte tremende, futili, ridicole o perverse vertenze, delle sue radici religiose – l’attesa del perdono, dell’ammissione se non dell’ approvazione tramite pentimento e inevitabile penitenza. In questo caso ancora più incongrua, se la reiterazione non è quella di un peccato ma di un legittimo e naturale modo d’essere, di una condotta onesta e che non lede in alcun modo convinzioni e credenze altrui.
Insomma – è semplicistico, lo so – chiunque dovrebbe vivere la sua esistenza personale senza scendere a patti con gli altri, con le loro persuasioni e con i loro pregiudizi, ma solo con la propria integrità, con la propria coscienza individuale e responsabilità “civile”, con la propria dignità, pretendendo di essere rispettato insieme ai suoi diritti, che, come è giusto, non conoscono gerarchie, graduatorie, riduzioni, senza sentire la costrizione a rendere pubblica la sua privatezza.
Però, è banale dirlo, vivere in un Paese ancora ostaggio di una morale religiosa, tirata di qua e di là come una pelle di zigrino, per fini politici, per consolidare funzioni di potere e le conseguenti rendite di posizione, imposta come etica pubblica, fino alla manomissione di scienze e conoscenze, ha spesso convinto individui e personaggi più o meno pubblici a darsi in pasto, a svelarsi a scopo simbolico, a spogliarsi di pudore e riservatezza esponendo quello che è invece sacrosanto e legittimo che appartenga solo alla sua sfera intima. E anche per rendere palese il paradossale uso improprio che viene fatto dei cosiddetti temi sensibili, quelle aree delle nostre esistenze che si vorrebbero regolate da dogmi confessionali e che, guarda un po’, sono le uniche che dovrebbero restare nostre nella generale spoliazione di prerogative e diritti.
E infatti non succede mai che un consigliere regionale faccia coming aut di indebite appropriazioni, nessun imprenditore di inopportune pressioni, nessun politico di docile assoggettamento a pratiche corruttive, perché si vede proprio che quelli non sono più o non sono mai stati temi moralmente cruciali ed eticamente sensibili.
Non ho gli strumenti per valutare quanto la ostensione simbolica e liberatoria: “..arriva un giorno che qualcosa si rompe dentro di te, non ne puoi più. Da solo mi sarei perso nell’incubo della mia omosessualità negata, ma Dio non ci lascia mai soli. E credo che mi abbia portato a fare ora questa scelta esistenziale così forte” di monsignor Krysztof Charamsa, che oltre a essere ufficiale della Congregazione è segretario aggiunto della Commissione Teologica Internazionale vaticana, oltre che docente alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum, possa influire sull’atteggiamento della Chiesa nei confronti della condizione omosessuale. Che a detta del 43enne sacerdote polacco, la riguarda in modo particolare: “In ogni società di soli uomini ci sono più gay che nel mondo come tale”. E nemmeno se sortirà qualche effetto sulle irremovibili posizioni in materia di celibato e “astinenza” come soluzione definitiva per contenere inclinazioni condannabili la sua denuncia: “è il momento che la Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana”, cui ha immediatamente risposto il Vaticano, che per bocca del portavoce padre Federico Lombardi lo ha accusato “irresponsabilità” per aver alzato la pressione mediatica sulla Santa Sede alla vigilia del Sinodo.
Di fronte a un Papa che si barcamena nella sua visita pastorale americana, abbracciando una coppia gay e riservando altrettanta benevola attenzione a Kay Davis, buona cristiana ma pessima impiegata comunale che ha rifiutato di rilasciare licenze di matrimonio alle coppie omosessuali, non è fantasioso sospettare che un richiamo così forte – e così potentemente mediatico – al dovere della Chiesa di custodire e prendersi cura dell’amore in tutte le sue forme, non sia funzionale proprio a quella combinazione di conservazione e innovazione che Francesco interpreta con tanta sapienza, di pop e di gregoriano, se fosse una musica, di reazionario e di modernizzatore, se fosse un leader della sua America del Sud, con un po’ di pepe populista e un po’ di oculata amministrazione del potere legato al suo ruolo.
Niente di concordato, per carità, riserviamo il complottismo a sindaci globe trotter, ma è possibile che l’autoproclamazione del Papa a premier mondiale sui temi delle disuguaglianze, delle guerre, dell’immigrazione, richieda anche qualche “cedimento” su altri terreni, che per le gerarchie ecclesiastiche sono altrettanto scivolosi, tanto da aver bisogno di un po’ di lobby di grande appeal mediatico, di una moral suasion convincente, come può esserlo una pressione nata dal vissuto, dal travagliato di una condizione umana che esce dal una sofferta clandestinità. Ma come dicevo prima, altrettanta potenza e altrettanta trasparenza, con annessa pubblicità, sarebbe gradita anche in tema di pedofilia, che se è doveroso l’universale riconoscimento dei diritti da parte di Stati e chiese, lo è altrettanto quello della giustizia, civile e umana, che quella del loro Dio non basta alle vittime.