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Scrivevo di aessermi trasferito a Opicina, una frazione di Trieste che si trova sull'altopiano carsico, pochi chilometri sopra il capoluogo. E' un grande paese, o una piccola cittadina, dove la maggioranza delle persone sono di lingua e cultura slovena. Il confine con la Slovenia è a pochi chilometri, anzi non c'è più per fortuna. Ormai c'è la libera circolazione delle persone fra i due stati e questo fatto, in queste terre, ha significato molto. Per anni infatti, ai tempi della Jugoslavia, la cortina di ferro correva proprio lungo questi boschi, questi campi, queste contrade.
Le guardie di frontiera ti controllavano la propusnica, ovvero il lasciapassare che la gente del luogo possedeva appositamente per andare in Jugoslavia. Una volta là compravi ad un prezzo ridotto alcuni prodotti come la carne, le sigarette o la benzina. Da piccolo e da ragazzo abitavo in provincia di Gorizia e anche lì il confine ti correva accanto.
A Gorizia addirittura l'ospedale civile si trovava a pochi metri dalla frontiera e, ogni volta che ci andavo per degli esami o per delle visite, guardavo dalla finestra con curiosità mista a timore il drappello di guardie col fucile a tracolla che controllava i documenti agli automobilisti di transito nelle due direzioni. Ancora oggi quando attraverso la frontiera che non c'è sento comunque una strana spiacevole sensazione, dura solo pochi istanti ma mi disturba. Il confine è come quelle scheggie di granata che, anche se asportate dalle carni, vengono sentite ancora per anni come se fossero sempre lì presenti. Il confine psicologico non scompare con quello fisico. E allora ti rendi conto di quanto sia stato una violenza quel maledetto confine: quella linea tracciata da politici e militari che ha diviso arbitrariamente delle genti che prima avevano vissuto insieme per secoli. Ti rendi conto di quanto sangue sia stato versato per spostare quella linea di qualche chilometro più ad ovest o più ad est.
La Storia da queste parti ha scritto capitoli tragici ed aperto ferite che ancora stentano a rimarginarsi. Lo stesso quartiere di Opicina in cui adesso vivo fu edificato nel dopoguerra per ospitare i profughi istriani, realizzando una dualità con gli autoctoni sloveni che immagino non sia stata semplice all'inizio. Ora molti anni sono trascorsi e molti contrasti sono stati superati, ma la memoria del passato non va cancellata, anzi va coltivata con lo spirito di ricucire per vivere insieme.
La conoscenza è basilare per la memoria: recentemente uno scrittore triestino di lingua e cultura slovena, Boris Pahor, ha fatto molto parlare di sè, perchè finalmente i suoi romanzi, notissimi all'estero, son stati riconsociuti ed apprezzati per il loro valore anche in Italia. Devo dire la verità ed ammettere la mia ignoranza: pur essendo originario di queste parti, non avevo mai sentito nominare il suo nome, tantomeno letto i suoi libri che raccontano quanto atroce e barbaro sia stato il fascismo nei confronti delle persone di cultura slovena che abitavano a Trieste. Impedire ad una persona di esprimersi nella lingua nella quale pensa è una violenza stupida e svilente. Son rimasto letteralmente a bocca aperta quando, durante un incontro pubblico con Pahor, ho appreso dalla sua voce che lui ha studiato gli scrittori e i poeti della sua lingua madre solo dopo la caduta del fascismo, visto che le scuole di lingua slovena erano state chiuse dal regime. Mi sono immaginato io, ormai adulto, a studiare per la prima volta Dante, Leopardi, Pirandello o Primo Levi. Mi sono vergognato per quello che hanno fatto quelli che parlavano allora la mia lingua e ancor di più per quelli che ancora oggi li difendono.
E' la stessa vergogna che provo quando, ogni 25 aprile, mi reco alla Risiera di San Sabba, l'unico campo di sterminio nazifascista presente sul suolo italiano. Sono ancora visibili le celle in cui venivano rinchiusi i prigionieri prima di essere uccisi direttamente o condotti ad Auschwitz: solo in parte restituiscono l'indicibile orrore che hanno subito i loro sfortunati reclusi, ebrei, sloveni, croati.
E' lo stesso orrore di cui ci parla Vanna Vinci nel suo Aida al confine, mirabile fumetto ambientato a Trieste che esprime tutto il dolore che ha attraversato la città e il Carso durante le due guerre mondiali, viste in un viaggio onirico e mentale di una ragazza di oggi che arriva nella città giuliana come studentessa.
Per tutti questi motivi sono felice di essermi tasferito ad Opicina, anzi ad Opčine, per scacciare dalla mia mente quell'idea spiacevole di confine che mi porto ancora addosso da quand'ero bambino, per arricchire ancora di più la mia identità con una cultura che ho sempre solo sfiorato.
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