Il conflitto in ucraina e la nuova guerra fredda: (in)evitabili “guerre di faglia”

Creato il 14 giugno 2014 da Eurasia @eurasiarivista
Ucraina :::: Giuseppe Cappelluti :::: 14 giugno, 2014 ::::  

La crisi in Ucraina rappresenta senza dubbio il momento più basso delle relazioni tra Russia e Occidente. Ciò che è avvenuto in questi mesi fa ormai parte della storia, così come è ben noto il coinvolgimento diretto tanto dell’Occidente quanto della Russia a sostegno delle rispettive parti, con una sostanziale inversione dei ruoli dopo che a Kiev l’opposizione è diventata governo (e viceversa). Il clima e il vocabolario sono da Guerra Fredda, ed è probabile che le tensioni in corso tra Russia e Occidente lasceranno il segno per diversi anni. Tuttavia l’idea di un ritorno al passato rappresenta una palese semplificazione. Gli attori protagonisti non sono cambiati, se si eccettua il fatto che la Russia moderna non è più la patria del “socialismo reale”, né ha alle sue spalle un’organizzazione come il Patto di Varsavia, ma alla base del conflitto in Ucraina non ci sono ragioni ideologiche, bensì geopolitiche e culturali. L’Ucraina non è il Vietnam, ma un Paese attraversato da quel confine invisibile che separa l’Occidente e il mondo russo-eurasiatico, e quella in corso nel Donbass e in altre regioni dell’Ucraina sudorientale è una di quelle che il celebre politologo statunitense Samuel Huntington definisce una “guerra di faglia”, ossia “un conflitto tra Stati o gruppi appartenenti a diverse civiltà”i.

Le “guerre di faglia” sono di gran lunga più lunghe e pericolose di quelle tra ideologie e gruppi di interesse, specie quando queste coinvolgono attori estranei al conflitto ma dotati di legami culturali, etnici, linguistici o religiosi con i belligeranti (come, appunto, nel caso ucraino). I vari movimenti terroristici di estrema sinistra che hanno sconvolto l’Europa degli anni Settanta, come le Brigate Rosse italiane e la Rote Armee Fraktion della Germania Federale, sono stati facilmente sconfitti una volta che l’appeal della rivoluzione comunista ha iniziato a segnare il passo. Le ideologie, dopotutto, sono dei semplici prodotti della ragione umana per poter raggiungere fini quali il benessere materiale, il buon governo, la libertà e le pari opportunità, e nulla impedisce di passare da un’ideologia all’altra se si dovesse ritenere quest’ultima maggiormente efficace. Ben più difficile è sconfiggere movimenti come l’ETA basca, l’IRA nordirlandese o i vari movimenti separatisti, federalisti e irredentisti che hanno insanguinato l’ex Jugoslavia e alcune province dello spazio ex-sovietico. Le radici di questi conflitti, infatti, non sono legati a una qualche forma di disagio sociale, bensì a questioni di natura identitaria, culturale, linguistica o peggio religiosa. Risolvere una disputa legata alla chiusura di una fabbrica proponendo prepensionamenti, casse integrazioni o reimpieghi presso altre sedi è possibile. Risolvere la disputa tra Serbia e Kosovo per mezzo di un accordo che prevede il riconoscimento diplomatico di quest’ultimo da parte di Belgrado in cambio del passaggio alla Serbia dei monasteri ortodossi e di Kosovo Polje, che alla fine del Trecento fu teatro di quella Battaglia della Piana dei Merli che da sempre svolge un ruolo cruciale nella mitologia nazionale serba, è invece praticamente impossibile.

La maggior parte dei conflitti di faglia non conoscono paci durature, bensì tregue, utili soprattutto per consentire alle parti di prendere fiato e dissotterrare l’ascia di guerra in un momento più opportuno. Non di rado, poi, questi conflitti terminano con assimilazioni forzate, pulizie etniche, scambi di popolazione o peggio genocidi, col risultato di rendere monoculturali delle aree che fino a poco tempo prima erano state dei crogioli di etnie, culture e religioni. Si pensi, a titolo di esempio, alle storiche minoranze tedesche della Slesia, dei Sudeti, della Prussia e della Pomerania Orientale, di cui non rimangono che poche tracce se si esclude l’inconfondibile impronta del loro genius loci, o all’odierna Istanbul, che ha ormai perso quasi completamente quell’atmosfera cosmopolita che caratterizzava la Costantinopoli ottomana.
Uno degli errori fondamentali dell’Occidente nella crisi ucraina è stato quello di non riconoscere la natura “di faglia” del conflitto in Ucraina, preferendo, per negligenza o peggio per dolo, pensare a una semplice riproposizione dei conflitti tra sfere di influenza che caratterizzavano gli anni della Guerra Fredda, o magari a un semplice tentativo di Putin di sviare l’attenzione dai problemi interni del proprio Paese. Come la Piana dei Merli, il Monte Ararat e il Kashmir, la città di Kiev è uno di quei luoghi nei quali si fondono nazionalismo e spiritualità. Uno studioso kazaco, per spiegare il valore quasi sacro che la capitale ucraina assume per Russi, Ucraini e Bielorussi, ha coniato l’espressione di “Gerusalemme degli Slavi Orientali”ii. Una metafora indovinata, e per due motivi. Da un lato, infatti, fu proprio a Kiev che gli Slavi Orientali adottarono l’Ortodossia; dall’altro, al pari della Città Santa, la capitale ucraina è un luogo di divisioni oltre che di unione. L’eredità della Rus’ di Kiev dovrebbe essere condivisa da Russi, Ucraini e Bielorussi, come afferma la maggior parte degli storici, oppure diventare un patrimonio esclusivo dell’Ucraina, come preferirebbero i nazionalisti ucraini? Allo stesso modo, i Russi e gli Ucraini sono dei sub-ethnoi di un unico grande popolo russo oppure due popoli a sé stanti, magari ostili? In Russia e nell’Ucraina Orientale si propende per la prima ipotesi, mentre a ovest del Dnepr (in ucraino Dnipro), il fiume che taglia il Paese in due parti, a prevalere è la seconda.

Le ormai ben note divisioni tra l’Ucraina occidentale e quella sudorientale hanno un ruolo decisivo nel far luce sui motivi per cui l’Ucraina non è diventata né una seconda Polonia né una seconda Bielorussia, ma è rimasta di fatto in mezzo al guado. E, se negli ultimi vent’anni le differenze interregionali si sono in qualche modo ridotte, non fosse altro per la coscienza di vivere in un unico Stato, la crisi in Crimea e il conflitto attualmente in corso nel Donbass rischiano di creare rancori duri a morire e di separare Russia e Ucraina per sempre. Ed è proprio il governo russo a trovarsi nella posizione peggiore, stretto tra la minaccia di sanzioni economiche, e quindi di difficoltà economiche serie, e il rinato nazionalismo russo che, se al momento ha contribuito a compattare il Paese attorno al suo leader, nei prossimi mesi potrebbe anche ritorcersi contro il Cremlino qualora quest’ultimo dovesse accettare compromessi, malgrado al ribasso, con le nuove autorità ucraine e l’Occidente in cambio della chiusura della frattura creatasi con questi ultimi. E, in questo caso, l’obiettivo degli ultranazionalisti russi diventerebbe proprio Putin, che da essere l’artefice della riscossa nazionale russa si troverebbe ad essere accusato di quello che, in guerra, è il più grave di tutti i crimini: il tradimento.

Dimostrare che questo fattore sia stato preso in considerazione dai leaders occidentali, e in particolare dal loro entourage, è quasi impossibile, ma l’ipotesi non è da escludere. L’esperienza storica, dopotutto, dimostra come domare i nazionalismi, già di per sé molto difficile, diventa quasi impossibile durante guerre e rivoluzioni. Chiunque abbia una conoscenza anche solo basilare della Russia, inoltre, sa bene che difficilmente Putin avrebbe accettato senza battere ciglio quello che di fatto è stato un golpe sostenuto dall’Occidente, e in particolare dagli Stati Uniti, finalizzato a privare il progetto eurasiatico del suo pezzo più importante dopo la Russia e (forse) il Kazakistan, ma che, a differenza delle steppe kazache, per la Grande Madre non ha soltanto un’importanza economica. Ancora una volta, quindi, la geopolitica si confonde con la cultura, e nello scontro retorico e non tra Russia e Occidente degli ultimi mesi l’identità svolge un ruolo cruciale, come dimostrano da un lato i riferimenti ai “valori europei di libertà e democrazia” e dall’altro quelli alla “decadenza dell’Occidente” e alla “difesa dei valori tradizionali”.

Quello tra Russia e Occidente, quindi, è anche uno scontro di civiltà, e la percezione dello stesso è peraltro molto più forte nella prima che non nel secondo. In Europa, in particolare, non mancano le voci di dissenso nei confronti della necessità di continuare un confronto nel quale le perdite potenziali sono di gran lunga superiori ai guadagni. I vari Cameron, Merkel e Hollande si sono adattati malvolentieri alla “linea dura” di Obama, e a esprimersi apertamente contro le sanzioni non sono stati soltanto i partiti nazionalisti ed euroscettici, molti dei quali ammirano Putin per le sue posizioni su temi quali la Siria e la difesa della famiglia, ma anche e soprattutto alcune delle principali multinazionali europee. Vista da Mosca, invece, quella in corso è di fatto una lotta per la sopravvivenza della propria nazione, come a loro tempo le Guerre Napoleoniche e la Grande Guerra Patriotticaiii. Le voci di dissenso, afferenti soprattutto a partiti di orientamento liberale e filoccidentale come Solidarnost’iv e la Piattaforma Civica dell’oligarca Michail Prochorov, pur presenti anche all’ombra del Cremlino, sono molto più marginalizzate che in Occidente, e spesso sono proprio i Russi più istruiti, parlanti un inglese fluente e quindi maggiormente aperti alle influenze occidentali, a criticare con toni aspri la posizione assunta dagli Stati Uniti sulla crisi in corso e, in generale, a sviluppare sentimenti fortemente antiamericaniv. Il rischio che l’Occidente, e in particolare l’America, si trasformino in un facile capro espiatorio per i problemi della Russia è palese, e in ogni caso non è difficile da prevedere che l’antiamericanismo rimarrà una costante della vita sociale e politica russa per diversi anni.

Eppure, ancora tre anni fa, la storia sembrava andare in direzione opposta. L’inquilino del Cremlino era Dmitrij Medvedev, un tecnocrate occidentalizzato nello stile e anche nei valori, Stati Uniti e Russia avevano da poco firmato gli accordi START sulla riduzione delle armi nucleari, e il Cremlino aveva di fatto dato il suo benestare all’intervento della NATO in Libia astenendosi alla votazione sulla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite. Certamente non mancavano le divergenze, dalla Siria alla questione dello scudo anti-missile nell’Europa orientale voluto dall’Alleanza Atlantica, con quest’ultima che, pur proponendo alla Russia un ruolo attivo nella sua realizzazione, si mostrava titubante sulla possibilità di includerla del tutto, come richiesto da Medvedev. Tuttavia nulla, o quasi, lasciava presagire che, nel giro di tre anni, Russia e Occidente sarebbero passate da una quasi-alleanza ad un’aperta ostilità. Almeno all’apparenza.

Le divergenze tra i piani strategici elaborati da Russia e Occidente a seguito della fine della Guerra Fredda, infatti, sono tali da rendere praticamente inevitabile lo scoppio, prima o poi, di una crisi come quella attuale. La prima, già all’epoca di El’cin, aveva elaborato una sorta di dottrina Monroevi secondo cui i Paesi dell’ex Unione Sovietica, con l’esclusione delle Repubbliche Baltiche, sarebbero dovuto rimanere nella sfera di influenza di Mosca e al riparo dalle ingerenze esterne, in primis quelle occidentali. Di tutt’altro avviso erano invece le potenze occidentali, secondo le quali, come affermato da un opinionista di The American Interest, “l’Unione Europea e la NATO sarebbero state allargate ai Paesi del Patto di Varsavia ed estesi all’interno dello stesso spazio ex-sovietico, ma la Russia sarebbe stata esclusa da entrambe. La Russia, pertanto, non sarebbe entrata né nella NATO né nell’UE”vii. Proposte come la creazione di un’area di libero scambio “da Lisbona a Vladivostok” hanno finora riscosso poco entusiasmo a Bruxelles, mentre il maggiore timore di Washington, come affermato da un diplomatico statunitense, non riguarda la diffusione del fondamentalismo islamico, bensì una reintegrazione politica dell’Eurasia post-sovieticaviii. E questo anche per motivi economici: un’Eurasia stabile e pacificata implicherebbe, tra le tante cose, un parziale spostamento dei commerci dal mare alle vie terrestri, e ciò comporterebbe una riduzione del potere relativo degli Stati Uniti, il cui predominio si basa anche sul controllo dei mari.

Nel 1990 l’Europa finiva a Lubecca; vent’anni dopo era arrivata a centocinquanta chilometri da San Pietroburgo. Questo spettacolare Drang nach Osten ha contribuito in modo non indifferente a rafforzare nell’Occidente l’illusione della “fine della storia” diffusasi a seguito della fine della Guerra Fredda, con tutta l’euforia ad essa connessa. La Russia, dopotutto, aveva avuto un ruolo cruciale nel sostegno alla riunificazione tedesca e aveva dato il proprio benestare alla permanenza della Germania in un’Alleanza Atlantica che sembrava aver perso di senso dopo la fine della Guerra Fredda. Dinanzi all’allargamento della NATO ai Paesi dell’ex Patto di Varsavia e alle Repubbliche Baltiche non ha mancato di esprimere il suo dissenso, ma, sebbene tale allargamento risultasse una violazione degli accordi tra Gorbačëv e Bush sr., che prevedevano che la NATO non si sarebbe avvantaggiata dallo scioglimento del Patto di Varsavia, per la Russia inghiottire la pillola non fu molto difficile. Mosca, dopotutto, non aveva né la capacità né l’interesse di ritagliarsi una propria sfera di influenza nell’Europa Centrale, culturalmente e storicamente occidentale, mentre le sarebbe stato molto più utile instaurare buoni rapporti con almeno alcuni di questi Paesi in modo da poterli avere come alleati all’interno delle strutture politico-militari dell’Occidente (come in effetti ha fatto). La condizione sine qua non, però, era che la marcia trionfale dell’Occidente si sarebbe fermata ai confini con Bielorussia e Ucraina, e tanto in Georgia quanto ora a Kiev l’obiettivo primario di Putin era di dimostrare che le linee rosse esistono e vanno rispettate.

Il bilancio della contrapposizione creatasi con l’Occidente non verrà determinato soltanto dalla scelta dell’Ucraina tra l’Europa e l’Eurasia, ma anche dalla possibile ridefinizione dei rapporti tra Russia e Occidente e dalla capacità della prima di saper giocare le sue carte. Come scrisse a suo tempo Huntington, nel mondo attuale la Russia occupa una posizione simile a quella della Cina durante la Guerra Fredda. Un’alleanza tra Russia e Cina, a detta dello studioso, “farebbe pendere definitivamente la bilancia eurasiatica a sfavore dell’Occidente e risveglierebbe tutti i timori per una relazione russo-cinese, come negli anni Cinquanta. D’altra parte, una Russia operante a stretto contatto con l’Occidente… risveglierebbe le paure cinesi, tipiche della Guerra Fredda, di un’invasione da nord”ix. Una scelta netta per una delle due parti non è nell’interesse della Russia, ma un orientamento anche solo tendenzialmente filoccidentale o filocinese potrebbe comunque essere determinante nel rallentare (o persino arrestare) il declino dell’Occidente, o viceversa nell’accelerare quello spostamento verso la Cina del baricentro del potere e dell’economia mondiale che molti vedono come inevitabile.
La partita, a questo punto, si sposta dall’Europa all’Asia, e per Mosca si apre una nuova sfida: rafforzare i rapporti con Pechino senza però compromettere quelli con l’India e il Vietnam, due alleati storici di Mosca ma le cui relazioni col fu Celeste Impero sono piuttosto tese, in particolare nel caso di Hanoi. Allo stesso tempo, la necessità di rilanciare l’Estremo Oriente russo conferendogli il suo ruolo naturale di finestra della Russia verso l’Asia rende indispensabile il potenziamento delle relazioni commerciali con la Corea del Sud e una piena normalizzazione dei rapporti col Giappone. E, non in ultima analisi, per la Russia è indispensabile sapersi ritagliare uno spazio tra Cina e Stati Uniti, che nel Pacifico, a differenza che in Europa e nel Medio Oriente, non sono avversari di Mosca. All’infuori della pacificazione col Paese del Sol Levante, sulla quale continua a tenere banco l’annosa disputa delle Isole Curili, questi obiettivi sono tutt’altro che difficili da raggiungere. La condizione, però, è il raggiungimento di una tregua con l’Occidente, in quanto, in caso contrario, la Russia si troverebbe sempre più inghiottita in un ruolo di vassallo della Cina che la potrebbe condurre in un circolo vizioso di isolamento e nuove tensionix.

Un tale esito non è nell’interesse di nessuno, e non è un caso che le ultime settimane siano state accompagnate da piccole ma importanti schiarite nei rapporti con l’Occidente sulla crisi ucraina. Putin ha ritirato le sue truppe dal confine ucraino e affermato che non si opporrà alla stipula degli Accordi di Associazione di Ucraina e Moldavia con l’UE; il nuovo Presidente ucraino Porošenko, in cambio, ha accettato i corridoi umanitari per i residenti del Donbass e promesso una tregua con i ribelli, mentre la prospettiva di sanzioni economiche contro la Russia si è allontanata. Certamente è troppo poco per parlare di un’imminente fine della guerra nel Donbass, così come non è improbabile che rimarranno dei conti in sospeso, in primis quello sullo status della Crimea, ma la nuova Guerra Fredda non è inevitabile, sebbene tale rischio potrà dirsi ridotto al minimo solo quando l’unipolarismo americano verrà sostituito da un nuovo “concerto delle nazioni” che rifletta la nuova realtà multipolare e in cui gli Stati Uniti siano riconosciuti come un attore primario dotato di legittimi interessi legati all’economia e alla situazione politica in altri Paesi, ma non della missione storica di dominare ed educare il mondo.
Intanto, nei prossimi mesi, una nuova sfida alla Russia potrebbe venire da Biškek. Il Kirghizistan, piccolo ma strategicamente posizionato tra Cina, Kazakistan – e quindi Russia –, Uzbekistan – e dunque Iran e Mar Caspio – e Tagikistan – e di lì Afghanistan e India –, è uno dei due Paesi (l’altro è l’Armenia) che nei prossimi mesi potrebbe entrare nell’Unione Economica Eurasiatica. Grande sostenitore della via eurasiatica è il presidente Almazbek Atambaev, che all’indomani della nascita dell’Unione Economica Eurasiatica ha dichiarato che “spera di festeggiare l’anno nuovo nella neonata Unione”xi. Tuttavia, se l’adesione di Erevan è ormai imminente, su quella di Biškek, che sarebbe dovuta avvenire già nel novembre scorso ma che è stata rinviata a causa di divergenze sui termini dell’adesione, è possibile nutrire qualche dubbio, sebbene il presidente. Ad accrescere le incertezze ha contribuito la visita in Asia Centrale, avvenuta nello scorso aprile, di una delegazione statunitense, comprendente tra gli altri il Sottosegretario di Stato per l’Asia Centrale e Meridionale Nisha Desai Biswal. La visita della delegazione, che ha incluso anche incontri con membri di un’opposizione tendenzialmente nazionalista ed “eurasiascettica”, è legata soprattutto alla crisi in corso in Ucraina e ai timori di una ripetizione dello scenario ucraino in Asia Centrale, in particolare in Kazakistan, ma non mancano le ragioni per sospettare che il reale fine della visita sia quello di organizzare una Maidan in Kirghizistan. Ciò, tuttavia, non è scontato. La Biswal, infatti, si è di fatto astenuta dal prendere una posizione netta sull’integrazione eurasiatica, affermando da un lato che le sue condizioni “non sono ancora del tutto chiare” e dall’altro che “i nostri amici kazachi… hanno rimarcato che non vedono la stessa come una relazione esclusiva e che intendono continuare sulla strada dell’adesione al WTO e del rafforzamento dei legami commerciali con l’Occidente e l’Asia Meridionale”xii. Si tratta di un deciso passo in avanti rispetto al paragone tra l’Unione Eurasiatica e quella Sovietica fatto da Hillary Clinton alla fine del 2012, e non è da escludere che i timori di “regalare” il Kirghizistan al fu Celeste Impero (o, peggio, al fondamentalismo islamico), una volta soppressa l’influenza russa, possano fungere da freno ai tentativi di destabilizzare un Paese che, dopo due rivoluzioni e i sanguinosi scontri interetnici del 2010, necessita prima di tutto di stabilità.

NOTE
1) S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 374.
2) http://tengrinews.kz/opinion/482/
3) Nella storiografia russa e di molti Paesi ex-sovietici, la Grande Guerra Patriottica è il conflitto tra la Germania di Hitler e l’URSS di Stalin combattuto tra il 1941 e il 1945.
4) Da non confondere con il polacco Solidarność, da cui il movimento ha preso il nome.
5) A titolo di esempio, si legga la pagina dei commenti dell’articolo Why Putin says Russia is exceptional pubblicato il 30 maggio dal Wall Street Journal (link: http://online.wsj.com/articles/why-putin-says-russia-is-exceptional-1401473667).
6) La dottrina Monroe è l’affermazione della superiorità statunitense nel continente americano sancita nel 1823 dall’allora inquilino della Casa Bianca James Monroe.
7) http://www.the-american-interest.com/wrm/2014/04/06/can-putins-ukrainian-strategy-be-countered/
8) D. Trenin, Post Imperium, Carnegie Endowment for International Peace, Washington DC 2011, p. 16.
9) S.P. Huntington, Op. cit., p. 357.
10) Nello specifico, è probabile che la Cina chiederebbe il sostegno russo alle proprie rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Orientale (Isole Senkaku/Diaoyu), in quello meridionale (Isole Paracelso e Isole Spratly), in India (Aksai Chin e Arunachal Pradesh/Tibet Meridionale) e forse ad un’invasione di Taiwan.
11) http://inform.kz/rus/article/2662938
12) http://in.reuters.com/article/2014/04/02/ukraine-crisis-usa-centralasia-idINDEEA310EK20140402

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