In Campania ritorna ciclicamente la questione del rapporto tra democrazia e verità. La differenza tra verità e democrazia consiste in questo: la democrazia non si fonda sulla verità ma non ne può fare a meno. Potremmo metterla così: la democrazia non si basa sulla verità ma sulla possibilità di dirla. Marco Demarco nel suo blog ha toccato nuovamente il tema della verità sullo stato delle cose in Campania sostenendo che sia Caldoro, sia Cesaro, sia De Magistris non dicono la verità. E non la dicono su temi e fatti in cui sono facilmente smentibili da tutti perché non bisogna essere degli esperti del settore per esprimere un giudizio democraticamente negativo sulla sanità, sui rifiuti e anche sui risultati immaginari della Coppa America. Si tratta di un problema molto serio che non si può liquidare facendo spallucce o dicendo “ognuno ha le sue opinioni”. Non lo si può fare perché se i governanti perdono il confronto con la verità o con almeno una verosimile versione dei fatti, perdono anche il loro ruolo di classe dirigente e si “scollano” dalla realtà diventando non un’èlite di governo ma un’èlite senza governo che oggi si usa chiamare casta.
Il presidente e il sindaco dovrebbero far uso del buon senso per interpretare al meglio il senso comune di napoletani e di campani, invece quasi come se avessero perso il comune senso del pudore propongono una loro singolarissima versione dei fatti che coincide con il Grande Cambiamento che secondo loro c’è stato nel passaggio da Bassolino a Caldoro e da Iervolino a De Magistris. In altre parole, invece di smontare ogni tipo di conformismo, ne propongono uno tutto loro con un film tutto rose e fiori che nessuno ha visto nel mondo reale. Il loro “ottimismo interessato” li spinge a confondere i propositi con la realtà o le analisi di governo o, meglio, del loro “ufficio comunicazione” con la realtà della vita quotidiana e a perdere così di vista quel buon senso di cui i governanti dovrebbero farsi una bella scorta. Infatti, forse meglio della parola “verità”, che è troppo alta e genera sospetto, può essere utile l’espressione “buon senso” che significa semplicemente “buon giudizio” perché in politica, come nella vita, arriva pur un momento in cui bisogna imparare a “mettere giudizio” o, come dicono le nonne, “la testa a posto”. Sembra una cosa strana e invece ne parlava con cognizione di causa anche Gramsci.
Nel volumetto intitolato Gramsci, Manzoni e mia suocera (Il Mulino) Ilvo Diamanti discute criticamente proprio il rapporto che c’è tra paradigmi politologici e realtà quotidiana e lo paragona al rapporto tra senso comune e buon senso. Il politologo lo dice riportando il giudizio di Gramsci sul romanzo di Manzoni: Antonio Gramsci distingueva tra “senso comune” e “buon senso” – che possiamo anche ritradurre con conformismo e critica - e citava proprio I promessi sposi là dove si legge che al tempo della peste “c’era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione volgare diffusa”. Proprio perché, aggiungeva Manzoni, “il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune” ossia del conformismo. Nel passaggio da Bassolino a Caldoro e da Iervolino a De Magistris non si è prodotto il cambiamento ma nuovo conformismo istituzionale e il buon senso, che pure c’è, se ne sta nascosto.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 2 marzo 2012