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Il connettivismo di mario gazzola

Creato il 06 giugno 2013 da Postpopuli @PostPopuli

di Giovanni Agnoloni

Connettivismo 7 IL CONNETTIVISMO DI MARIO GAZZOLA

Mario Gazzola

Mario Gazzola è uno dei più poliedrici esponenti del movimento connettivista. Scrittore, esperto di musica e di cinema, con i suoi lavori, come i racconti di Crepe nella realtà (ALeA Books) e il romanzo Rave di morte (Mursia), offre uno sguardo sfaccettato ed estremamente suggestivo sul mondo e le sue distorsioni (attuali e) prossime. Ho avuto il piacere di intervistarlo.

- Il tuo approccio al connettivismo – lo si vede dalla tua raccolta di tre racconti “Crepe nella realtà” – ha una chiara impronta politico-sociale. Perché?

Non sono uno scienziato alla Asimov, non saprei mai scrivere quella hard s/f in cui si sviscerano le frontiere della ricerca in qualche campo. Invece le distopie alla Orwell mi hanno sedotto fin da ragazzo e la narrativa di s/f offre un punto di vista privilegiato (l’ambientazione al futuro) per “giocare al profeta di sventura”, una componente che più o meno implicitamente ha sempre serpeggiato anche nel cyberpunk, corrente di riferimento del mio romanzoRave di Morte (e pure con diverse stoccatine allo scenario politico globale contemporaneo) e un po’ meno dell’antologia Crepe nella realtà; come anche nel cinema che dal cyberpunk è derivato, da Blade Runner a Strange Days. Ci offre un’ottima chance per dimostrare ai detrattori del genere che anche la nostra letteratura pulp può avere coscienza e uno sguardo morale sul mondo, la società che ci circonda al presente (è sempre quella, in fondo, che nutre le nostre visioni), la Storia, le azioni dell’umanità in essa .

Potremmo dire che la s/f ci consente di “fare un po’ i catoni” senza troppo montar sul pulpito, ma mantenendo la leggerezza, quel pizzico d’ironia, anche di autoironia (che nelle mie storie credo, spero, si percepisca sempre), legata al fatto che, in fondo, stiamo sempre facendo narrativa pulp, appunto, non saggi di sociologia. Insomma, se giochiamo ai profeti di sventura abbiamo il lusso di non essere obbligati ad esser neppure veritieri, anzi – date le nostre visioni – in fondo speriamo sempre di essere smentiti dal futuro!

- La tua scrittura si alimenta di risonanze e consonanze intrise di potenza acustica, che d’istinto mi fanno pensare alla grande tradizione del rock. La tua ricerca stilistica è in primis figlia di un’indagine musicale? E in che senso?

Beh, il rock è la mia vita: il mio primo libro pubblicato è stato la mia tesi di laurea in sociologia sul rock (Rock – cultura, subcultura, controcultura, Firenze Libri), poi ho fatto il giornalista musicale (e spesso il fotografo ai concerti) per anni, ho anche condotto programmi radio intervistando esponenti del rock italiano, e ogni tanto torno a scriverne sul mio sito www.posthuman.it o collaboro al programma Moshpit su Radiobase.fm; ho una collezione di dischi smisurata… potete capire che per me molte suggestioni letterarie sono arrivate attraverso la musica: che so, Kerouac, Burroughs (a cui mi sono ispirato a mia volta per le visioni allucinatorie), ma anche cose di Gibson (inNeuromante abbonda il dub) o Ballard. E siccome scrivere ci consente il lusso di mettere in scena le nostre fissazioni senza alcun limite, quando mi va (specie nel romanzo, che è intensamente rockettaro) mi permetto di “giocare al rocker” che nella vita non ho potuto essere. In fondo, un altro vantaggio di noi scrittori è non avere costi di produzione e messinscena delle nostre fantasie, quindi se un giorno ci va di metterci sul palco con David Bowie (ispiratosi a Orwell per 1984 e Big Brother) o i Sonic Youth (grandi fan di Dick), chi ci vieta di toglierci lo sfizio?
I reading live, poi, sono i nostri concerti, in cui ci sentiamo… Jim Morrison per una sera, no?!

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- Altra tua grande risorsa è la tua vasta conoscenza della storia del cinema: le tue storie le visualizzi principalmente per immagini?

Decisamente. Ho sicuramente il gusto tarantiniano per la citazione cinefila inserita nel testo come strizzatina d’occhio al lettore, ma penso che il discorso non finisca lì: mi spiego, la nostra generazione è la prima che arriva alla scrittura con una formazione che bene o male è prima visiva e solo in un secondo tempo letteraria. Quindi, pur senza pretendere di parlare a nome di altri autori, penso che oggi la maggior parte di noi “scriva i film che vorrebbe vedere”: nel mio Rave di Morte c’è addirittura una città-carcere come in 1997, Fuga da New York, ma pensa anche ai cartoon viventi di Dario Tonani, a com’è bladerunneriana la Napoli piovosa di Giovanni De Matteo (Sezione π²) o la Mosca di Francesco Verso (E-Doll)…

Comunque, tornando a me, questa componente la sento molto forte, anche perché penso che se il lettore – a sua volta oggi formato sul ritmo cinetelevisivo – “vede” la scena che legge, partecipa più avidamente alla trama senza stancarsi della “fatica di leggere”.

Come sai, ho anche girato amatorialmente con una troupe di amici un cortometraggio da me scritto (Con gli occhi di domani), e non ho mai smesso di cercare – pur nel deserto italico – il modo di tornare a vedere una mia storia visualizzata per immagini, magari attraverso una produzione più professionale, cioè con mezzi meno barricadieri di quelli di cui ci siamo dovuti accontentare per quel primo esperimento. Chissà se il futuro ci riserverà qualche sorpresa in questo campo…

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- Quanto ti senti debitore dell’esperienza letteraria del Cyperpunk, e quanto di altre “matrici” del Connettivismo?, come ad esempio il Futurismo?

Come accennavo sopra, il Cyperpunk è il principale punto di riferimento del mio primo romanzo Rave di Morte e, direi, almeno anche del racconto più lungo di Crepe nella realtà, cioè “Situation Tragedy” (che ha nel Videodrome di Cronenberg il riferimento filmico più diretto, insieme a suggestioni da Truman Show), quindi direi che al riguardo non c’è molto da aggiungere. Se non che, da un punto di vista puramente stilistico, al di là del contributo innovativo al genere, ho sempre trovato che Gibson e Sterling fossero degli scrittori un po’… come dire, barocchi, tortuosi da seguire. Mentre un Lansdale, anche se la s/f non è il suo genere più frequentato, secondo me ha il ritmo che t’inchioda alla poltrona finché non hai finito, anche nelle sue prove non migliori.

Per quanto riguarda il Futurismo, lo sento meno: con gli occhi di oggi (per autoparafrasarmi), mi pare un movimento un po’ datato, con quella sua enfasi fascistoide sulla guerra e l’entusiasmo ingenuo per le automobili (sì, so che banalizzo un po’)… ma anche visivamente mi sembra meno interessante del Surrealismo, che invece continua ad ispirarmi con le sue associazioni subcoscienti e spiazzanti, spesso erotiche. Me ne nutro avidamente quando affondo i miei personaggi in situazioni oniriche, allucinatorie, orrifiche, per metterli di fronte ai loro terrori o ai loro desideri inconfessabili…

Certo, senza gli esperimenti poetici del Futurismo, forse non avremmo avuto neanche il cut-up di Burroughs, quindi in qualche modo devo implicitamente qualcosa anche a Marinetti & co., ma in fondo si deve qualcosa a tutta la letteratura che ci ha preceduti, consapevolmente o meno.

- Puoi dirci qualcosa dei tuoi prossimi progetti?

Con piacere: l’8 giugno sarò a Pavia per una presentazione di Crepe nella realtà con reading di uno dei tre racconti (sarà “Voto Segreto”); poi, ho appena consegnato un nuovo, ardito meta-racconto (“Il Cervello Rivelatore”), in cui è centrale il personaggio “Mario Gazzola, scrittore suicida nel 2017”, per l’antologia Operazione Europa: il nostro futuro prossimo-prossimo futuro. Quindici autori immaginano il nostro continente tra cinquant’anni, a cura di Pier Luigi Manieri (uscirà per Historica Edizioni). E fin qui siamo ancora nella distopia socio-politica, come dicevi tu all’inizio.

Inoltre, terminato un corso di drammaturgia teatrale sul genere horror, ho scritto il mio primo copione teatrale: vediamo se questa prova darà vita a sviluppi interessanti in nuove direzioni multimediali. Per il soggetto ho ridotto e adattato quello del mio secondo romanzo, tuttora in corso di stesura, che si intitolerà Buio In Scena: la vicenda di una compagnia teatrale di detenuti che realizza uno spettacolo in carcere con un successo superiore ad ogni aspettativa, ma anche con conseguenze imprevedibili, che in qualche modo rendono l’espressione “magia del teatro” vera… alla lettera. E più minacciosa di quanto abitualmente si creda. Qui mi spingo nel campo dell’orrore occulto – per così dire, aroniano – più che in quello della s/f vera e propria, inoltre affondo in un linguaggio per me nuovo – quello del teatro, appunto – anche se conto di non rinunciare del tutto a qualche chicca cinefila e musicale (un misterioso video di un concerto rock maledetto). Ma nella vita bisogna provare un po’ di tutto, no? È così breve… non farò neppure in tempo a girare il mondo con la mia band…!

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