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Discutere della sceneggiatura che il regista approntò all'uopo con Fabio Storelli va molto al di là delle mie competenze, nonostante Il conte di Montecristo sia uno dei miei romanzi preferiti in assoluto. All'ingrosso, basti dire a chi si sia lasciato catturare dalla sua capacità seduttiva, che del libro manca fondamentalmente tutta la lunghissima parentesi romana (salvo una comparsa di Luigi Vampa in chiusura), che si semplificano molto alcuni momenti - soprattutto a considerare i capricci filologici dell'amore per l'oggetto del desiderio - e che alcuni personaggi acquistano un peso un po' diverso (per esempio, sparisce quasi del tutto il ruolo di Franz d'Epinay, affidato qui a un emergente Ugo Pagliai, ma soprattutto viene totalmente reinterpretata la figura di Noirtrier).
In particolare, sorprende come l'immaginario dettato dalla lettera di Dumas venga ora disatteso fino al senso di un tradimento amoroso, ora sembri fuoriuscire proprio dalla mente del lettore appassionato. Sarà per via dei tempi, ormai improponibili: ma la regia è senz'altro moderna, nonostante tutto, di sovrana teatralità, centrata sui volti e sul loro plasmarsi in pose e in maschere grottesche (come è grottesca qua e là la voce vissuta dell'ottimo, ma pur sempre diciannovenne Andrea Giordana). Lo si può dire soprattutto dei due odiosi fuorilegge Caderousse (Quinto Parmeggiani) e Benedetto "Andrea Cavalcanti" (Lino Capolicchio), o ancora un altro cattivo, l'insopportabile Danglars di Achille Millo, che vengono deformati in ricercatissime espressioni plastiche in grado di cancellare ogni patina di vecchio che voglia appesantire lo sceneggiato.
Forse, a rimetterci sono quelle figure non caratterizzate in modo netto, come il mio amatissimo Albert (decisamente, il mio personaggio preferito), a mio avviso un po' insipido nella recitazione di Ruggero Miti (ma, davvero, ancora una volta, sarà il mio amore fraterno ed empatico a farmi parlare) o la Mercedes a suo modo archetipica e insieme poco pregnante di Giuliana Lojodice, o ancora il Villefort di Enzo Tarascio. Bello ed estremamente amabile, ma senza fascino peculiare, come nel romanzo il Maximilien Morrell di Giorgio Favretto, mentre pieno di emozione, ma davvero ridotto all'osso, l'indimenticabile abate Faria di Sergio Tofano (la storica firma del Signor Bonaventura...).
Il conte di Montecristo, che (come qualunque altra riduzione) non potrà mai sostenere il confronto con il romanzo di Alexandre Dumas, è un'occasione preziosa di affondare nella storia della nostra migliore televisione. Otto ore e mezzo di spettacolo per le famiglie, di letteratura divulgata a chi ama la letteratura e a chi ancora non ne conosce l'incanto. Uno di quei tesori da tirar fuori periodicamente dagli scrigni gelosissimi di una TV drogata e volgarissima.
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