In corpo 012. Rassegna d’arti performative.
BT’F Extra, via Saragozza 105, Bologna. 27 – 29 Gennaio 2012
Partner: BT’F gallery / Sponge ArteContemporanea
Performers: Max Bottino, Tiziana Contino, Joy Coroner (a.k.a Domenico Buzzetti), Roberto Paci Dalò, Giovanni Gaggia, Chiara Scarfò, Mona Lisa Tina
Preview: Rita Vitali Rosati – 26 Gennaio 2012 all’interno di Arte Fiera
Cura: Sponge ArteContemporanea
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Testo non critico di Emanuele Beluffi
Il corpo, ancora. Rieccoci, a distanza di un anno, alle prese con questo terminus ad quem della famigerata diade mente/corpo su cui la letteratura filosofica ha contribuito alla fortuna critica del pensiero occidentale. Intorno alle potenzialità teoretiche dell’altra parrocchia, nella fattispecie la speculazione orientale, si potrebbero versare fiumi d’inchiostro – o meglio, visti i tempi moderni, paginate di fogli Word -, non foss’altro perché i natali del pensiero occidentale stanno proprio dalla parte geograficamente e culturalmente opposta. Ecco perché noi non sappiamo andare al di là del principio di non contraddizione (una cosa è O non è), mentre il Tao parla del principio della compenetrazione degli opposti: una cosa è E non è. Sic transeat gloria mundi. Appunto, procediamo.
Il corpo, prigione dell’anima secondo Platone, massima oggettivazione della Volontà per Arthur Schopenhauer, punto zero dell’orientazione spaziale nella teoria di Edmund Husserl. L’elenco potrebbe continuare, ma sono questi, a mio giudizio, i correlati storico/speculativi primi di questo oggetto del pensiero. Tutto il resto è noia.
Non che prima i pensatori non sapessero di avere un corpo oltre che una testa pensante, in fin del conto quella di vedere i filosofi in mutande è una pratica intellettuale che non diverte più nessuno, ma fu merito di Husserl l’aver spianato la strada, via fenomenologica, a un apporto metateorico all’arte che vedesse nel corpo proprio l’organon dell’appercezione. La datità sensibile della cosa, il fatto di non poterla conoscere da TUTTI i punti di vista, avrebbe dato la stura alla realizzazione della cezanniana Montagna di Sainte-Victoire prima e alla visione pluriprospettica di Picasso subito dopo, per non parlare dell’ossessione morandiana (nel senso di Giorgio Morandi) per l’oggetto dipinto tutta una vita, la bottiglia quale espressione sensibile della bottiglità.
Platone era un nemico delle arti visive – ma esaltava la potenza visionaria della mantica poetica, insomma era un freak ante litteram e Jim Morrison avrebbe dovuto annoverarlo fra i propri padri spirituali insieme a Aldous Huxley – e dal momento che contemplava il corpo quale séma, tomba, prigione appunto dell’anima, le sue speculazioni sono buone per chi ha la morte dell’anima.
Schopenhauer, ebbro d’ispirazione romantica, vedeva invece nella contemplazione dell’opera d’arte l’ipotetica condizione per la liberazione dal servaggio della Volontà di vivere, ma identificando il corpo con la massima oggettivazione di detta Volontà era anch’egli poco tenero con tale oggetto d’indagine, avendone quindi tematizzato l’ammazzamento attraverso il Nirvana.
Ergo, quale che sia la nostra formazione, quando nell’ambito delle arti visive andiamo a toccare il corpo siamo tutti più o meno debitori dell’esimio professore di Friburgo Edmund Husserl. Il quale disse tutto, ma proprio tutto. Ecco perché gli accademici ce la menano ancora col corpo e con la fenomenologia, altrimenti sarebbero costretti a cercarsi un lavoro (adesso signora mia hanno anche inventato la cattedra di fenomenologia delle arti visive).
Quando il buon Giovanni Gaggia mi propose, un anno dopo la rassegna In corpo, di riprendere in mano un tema soltanto anticipato, sapevo che si sarebbe trattato di un altro momento di quell’universo di discorso in cui, senza volerlo intenzionalmente, mi sarei imbattutto, da diverse propettive più volte in successive e differenti occasioni a partire dalla faticida prima volta coi tipi di Sponge ArteContempornea. Perché il corpo è un tema d’indagine supercontemporaneo e con ogni probabilità, senza con ciò stesso volerlo incensare, quello dell’artista è uno sguardo lungimirante inconfondibile e dirompente che ci fa vedere al di là del fatidico velo di Maya, foss’anche per dirci soltanto che il re è nudo.
Sarebbe sterile star qui a ciurlar col manico per riproporre una storiografia dell’arte performativa, altri l’han fatto egregiamente prima di me e in fin del conto i nomi son sempre quelli, quindi il succitato proponimento sarebbe nulla più che aprir la bocca per far passare l’aria tra i denti. Mi preme piuttosto, per quanto possa valere il mio intendimento, enfatizzare nello specifico contesto di In corpo 012 il ruolo psicoattivo e fisioattivo del performer quale catalizzatore delle intenSioni (cioè il contenuto cognitivo) e dell’intenzionalità (cioè il “moto di coscienza” verso l’oggetto….”attenzionato”, per dirla in gergo giornalistico/giuridico quando ci si riferisce al malcapitati destinatari di avvisi di garanzia del magistrato inquirente) dell’altro da sé, che nel caso specifico prende la forma dell’osservatore/fruitore di un’esperienza performativa condivisa. Ehi, svegliatevi!
Una delle componenti della contemporaneità è proprio la riscoperta del corpo, in apparente contraddizione con uno stato del mondo in cui la comunicazione e l’intenzionalità avvengono spesso e volentieri in maniera eterea, nell’etere appunto della Rete. E l’etere era il famoso quinto elemento di Aristotele! dopo acqua, aria, terra e fuoco…
Quando Merleau-Ponty la menava col corpo, la sfera virtuale era ancora di là da venire. Facile quindi elevare tale soggetto d’esperienza a oggetto di disamina ciritica. Ma l’avvento della Rete non ha affatto certificato il trionfo dell’effimero etereo puropensiero e messo in soffitta la corporeità come un vecchio arnese, anzi. Forse proprio per questa differenza epistemica fra la corporeità vista con gli strumenti intellettuali di sessant’anni fa e la corporeità indagata attraverso i prolungamenti del pensiero reappresentati dai mezzi di cui ora ci si avvale noi argonauti della noosfera multimediale, un approccio metateorico alla corporeità quele è l’apporto performativo in seno alle arti visive prende un po’ le forme delle avventure della differenza, per atteggiarci un po’ a postomoderni redivivi. Ma chi l’ha detto, che il postmoderno è morto? E che cazzo, stiamo ancora qui a parlare di corporeità e pensiero debole per un’unica ragione valida e inespugnabile: l’uomo non morrà e con lui nemmeno il corpo, ce l’insegna la religione più erotofila che ci sia, la religione cattolico cristiana del mondo occidentale tecnologico capitalista e sempre, ab aeterno, postmoderno.