Voce narrante è un poliziotto che a Berlino ritorna a calcare l'Holzgang, il «corridoio di legno» (da qui il titolo) del dormitorio degli allievi più giovani al collegio dove, insieme a un gruppo di altri amici, ha passato l'adolescenza e si è formato; prima di rientrare in Italia e intraprendere la lotta armata. Oltre al recupero memoriale della vita passata in collegio, gli sforzi del poliziotto confluiscono nell'indagine privata volta a ricostruire le vicende parallele di due fratelli (ai tempi suoi camerati) - l'«idealista» Silvestro e lo «scettico» Andrea -, del loro sodalizio e antagonismo, dei loro amori incrociati, in tempo di pace e di guerra; e i cui destini appaiono, da subito, complementari (forse solo due forme diverse di «cinismo»). Non volendo troppo svelare, per non guastare il piacere al lettore, riguardo la trama, mi limiterò a dire che il racconto continuerà ad avvitarsi, per sfociare in un finale assai macabro di dilagante insania, inaudita rappresentazione del dolore: ciò che fa somigliare Il corridoio di legno a un romanzo-tragedia, dove la catarsi (s'è catarsi avviene) è possibile solo attraverso il nodo scorsoio della follia più nera e dell'autoannientamento.
Con un espressivismo granoso e straziato che tradisce la scorza del poeta, e che fa il paio peraltro con l'alto tasso metaforico e simbolico, vera cifra dominante del romanzo, Manacorda lascia montare il gorgo kafkiano (e lo stesso Kafka è evocato anche in un passaggio cruciale, il colloquio tra i due fratelli), dove le crepe del vissuto di personaggi «spietati» e insieme «sentimentali», possono cogliersi all'esatto nebuloso intersecarsi di malessere privato e male pubblico. E le motivazioni ideali, gli astratti furori ideologici, le quasi fisiologiche vampate rivoluzionarie di quegli anni («siamo stati tutti dei dannunziani involontari») non sono poi così distanti, a ben guardare, dalle resistenze dei veri reazionari, anch'essi, in fondo, non meno eversori degli altri: come le facce esplose di un solido qualsiasi sul piano, rivoluzionari e reazionari, si snodano adiacenti e consequenziali, a formare un più inquietante disegno, una cartografia amorale e traversa. Siamo, con evidenza, al tema cruciale del pericoloso sovrapporsi degli opposti, stagliati sull'orizzonte vuoto e straniante del Potere.
Certo questo circolare addensare, su di un medesimo piano, parrocchie contrapposte, spiacerà ai chierici più nostalgici e incalliti, assertori d'una necessaria palingenesi, atrofizzati scrutatori della storia, epperò sempre pronti a mostrare la nuca, ostinarsi a guardare di spalle. Così la rivoluzione, nella trasposizione metaforica di quegli astratti furori fornita da Manacorda, viene ridotta a «un editing un po' più radicale» della realtà, nulla più che una «correzione di bozze». Mentre la sola superstite rivoluzione oggi plausibile, sarebbe il gesto beffardo e «inattuale», la rivolta indolore, tutta privata e inutile («come correre su un treno in corsa nella direzione opposta, tanto per ingannare il tempo in attesa della morte»). Cosa voglio dire con ciò?
L'abbandono in partenza d'ogni pretesa di documentato e meticoloso resoconto d'una delle pagine più incandescenti della storia nazionale, l'averla innalzata a un livello di complessa e poetica esemplarità, offre occasione allo scrittore di riscoprire l'antico potere della letteratura di segnare scorciatoie, mettendoci a contatto con quella realtà altra e oscura che potremmo chiamare verità.
In tal senso, il felicissimo esordio narrativo di Giorgio Manacorda che, alla legge imperante d'un documentato iperrealismo, inteso come mero e pedissequo ricalco in carta carbone della realtà, per il racconto dei nostri tempi, preferisce uno sguardo traverso e spiazzante, segna l'ulteriore riprova di una positiva e incoraggiante inversione di tendenza che lascia ben sperare (dinnanzi al mare magno di autofiction e ombelicali questioni private rimestate in un atteggiato falsetto mimetico-narrativo). Cosicché accanto a questo Il corridoio di legno, potrebbero tranquillamente allinearsi, accomunati da una analogo riposizionamento nei confronti della letteratura, il palinsestuoso Permunian de La casa del sollievo mentale (Nutrimenti, 2011), il visionario affresco del dilagante malaffare italiano compiuto con Le sorelle Soffici (Elliot, 2012) da Pierpaolo Vettori, il grottesco teatrino de La gallina (Marsilio, 2011) di Fabrizio Ottaviani e finanche il recente esordio di Roberto Andò che con il suo Il trono vuoto (Bompiani, 2012) ha scritto un apologo filosofico sull'insignificanza del potere politico e insieme un romanzo di smarrimento esistenziale. Autori "ibridi" questi (lo scrittore-poeta, lo scrittore-bibliotecario, lo scrittore-fabbro, lo scrittore-critico, lo scrittore-regista) che alla denuncia, allo scandaglio, hanno saputo coniugare un'attitudine (talvolta visionaria, talvolta fantastica) alla perorazione insistita, capace di rimettere a contatto il lettore con i nodi più oscuri e profondi della vita.
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