Valeria Arena 3 luglio 2013 cinema, vedere Nessun commento
Il cinema di Abdellatif Kechiche è presenza e testimonianza, partecipazione ed empatia. Il suo segreto sta nella macchina da presa, la cui capacità di penetrare nel vissuto dei suoi personaggi, sia fisico che mentale, ricorda i più grandi Bergman e Cassavetes. A Kechiche non resta altro che osservare e documentare, come un neorealista del 2000. L’osservazione però da sola non basta. Nelle sue opere l’imponente presenza dei corpi e dei volti è supportata da un flusso di parole inarrestabile, che non può far altro che favorire una totale partecipazione empatica. L’uomo, nella sua più completa manifestazione, corpo e parola, è l’unità minima del cinema del regista tunisino. Kechiche lascia che i suoi personaggi si presentino in maniera autonoma, mentre lui si limita a osservarli e a filmarli. Nessun vorticoso movimento di macchina, nessun autocompiacimento tecnico. Solo primi e primissimi piani e dialoghi. Le bellissime tavolate di Cous Cous, imparagonabili a quelle nostrane di matrice ozpetekiana, sono il simbolo del cinema di Kechiche, in cui il realismo quotidiano fa da padrone.
Unico trionfatore della 66ª edizione del Festival di Cannes, insieme alle sue donne, Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos, il regista naturalizzato francese sembra aver realizzato il suo vero capolavoro. La vittoria della Palma d’oro è stata infatti accompagnata da una lunghissima standing ovation e, leggendo i commenti e le recensioni degli addetti ai lavoro, sembra che Kechiche non abbia mai avuto rivali, così come le sue bellissime interpreti. È difficile però pensare a un’opera che possa superare la bellezza e il coinvolgimento di Cous Cous, anche se non abbiamo dubbi sulle reali capacità del regista tunisino, e l’amore, declinato in ogni sua forma, che riesce a trasmettere questa pellicola: «l’amore è quello fatto di cose di tutti i giorni, è fatto di un buon rapporto». Il film di Kechiche è il semplice racconto di una famiglia, che possiamo definire allargata, di origine maghrebina emigrata in Francia, tanto lineare nella narrazione quanto complesso nelle sue dinamiche interne. È nelle relazioni interpersonali, nelle difficoltà quotidiane e nella voglia di riscatto che si dispiega la vita di Slimane, un sessantenne manovale portuale, unico vero protagonista dell’opera, e collante familiare.
I protagonisti delle pellicole di Kechiche sono sempre personaggi taciturni e silenziosi, individui che lasciano agli altri l’uso compulsivo delle parole, mentre permettono al proprio corpo di svolgere tutte quelle funzioni che la bocca non riesce a elaborare. Ciò che li accomuna è l’indiscreto occhio esterno, quello degli sconosciuti/conoscenti, a cui bisogna sempre dimostrare qualcosa. Il dissidio tutto interiore tra l’essere più intimo e quello manifestato agli altri trova poi la sua più completa realizzazione nella Venere nera, in cui l’impianto teatrale e la dicotomia apparenza/realtà reggono tutta l’intera opera. I protagonisti di Kechiche non sono né reietti né emarginati, sono semplicemente fraintesi, dinamica comune nei rapporti interpersonali, perché il loro essere e le loro reazioni posso lasciare spazio solo a questo tipo di relazioni. Sono uomini a cui viene sempre richiesto di essere altro, e mai quello che sono davvero.
Il Cous Cous di Kechiche è fatto di parole e solidarietà, di cooperazione e partecipazione. Slimane è un uomo che ha bisogno di essere accudito, di essere coccolato e di essere aiutato, e il silenzio probabilmente è l’unico modo per gridare il proprio bisogno e la propria voglia di riscatto. Se Slimane non molla fino alla fine, Saartjie, la protagonista della Venera nera, è costretta a cedere, nonostante i continui tentativi di ribellione, sempre nel silenzio. Se a Slimane rimane la famiglia e il calore che questa può regalare, a Saartjie resta solo la glaciale comunità scientifica. Se a Slimane resta il cous cous, e tutto quello che la sua preparazione comporta, alla venere ottentotta rimane solo sé stessa e la fama che la sua storia può regalare. Erroneamente etichettato come verboso e noioso, il cinema è di Kechiche è in realtà un’esplosione di vita. I lunghi dialoghi, assolutamente funzionali alla volontà del regista tunisino di raccontare il quotidiano in ogni sua sfaccettatura, hanno una capacità empatica disarmante, incollano allo schermo, anziché annoiare.
Il cinema di Kechiche, per il suo impianto e le sue scelte registiche, punta al coinvolgimento, alla viva partecipazione, alla testimonianza, come se si fosse presenti alle tavolate di Cous Cous o agli spettacoli della Venere nera. Con Kechiche si è spettatori, assolutamente attivi, a tutti gli effetti, e si rompe la quarta parete. Si strappa lo schermo. È un cinema che racconta la vita in ogni suo particolare, anche quello più noioso, mai superfluo. Non è un cinema dedicato agli ultimi e agli emarginati, ma un cinema in cui campeggia la dignità umana, e in cui l’uomo si muove a trecentosessanta gradi. Perché se la vita è fatta soprattutto di malintesi e giochi di potere, nelle relazioni familiari così come in quelle extrafamiliari, l’uomo non può far altro che dipendere da questi rapporti, e essere divorato da quest’ultimi. Se ogni individuo riesce a realizzare sé stesso solo nella sfera sociale, e anche vero che la stessa sfera può annientare e arricchire nello stesso momento. Così come la morte ha bisogno della vita, e la conoscenza dell’ignoranza. Come i finali di Cous Cous e della Venere nera.