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Il criterio di (non) reciprocità europea

Creato il 24 agosto 2013 da Fisiciaroundtheworld

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I ricercatori stranieri in Italia sono pochi, anzi pochissimi.
Questo è un fatto che oramai noi tutti consideriamo endemico e sintomaticodello stato in cui versa da tempo immemore la Ricerca Italiana. I fatti (gli errori, le scelte, ecc) e le ragioni che hano originato questa condizione si sono perse nella memoria e, piuttosto che andare a rivangare brutti ricordi, mi interesserebbe capire cosa sia, ancora oggi, a bloccare questa situazione.

Un esempio emblematico, e molto grave, di tale stato riprovevole di cose, è rappresentato da un problema, molto discusso ultimamente (almeno dalle mie parti), noto a molti ma non ai più (compreso, a quanto sembra, il management del MIUR e del ministero per l’Integrazione): l’assistenza sanitaria per i ricercatori stranieri.

Nel nostro paese, qualsiasi straniero che abbia un contratto di lavoro, e sia quindi soggetto al pagamento dell’IRPEF, ha diritto all’assistenza sanitaria gratuita. In alternativa, può pagare un contributo forfetario annuale pari al 7.5% dei suoi redditi imponibili (http://www.salute.gov.it/assistenzaSanitaria/paginaInternaMenuAssistenzaSanitaria.jsp?id=2522&menu=stranieri).
Inoltre, per i cittadini UE esiste anche la possibilità di recarsi nel nostro paese con la carta sanitaria europea (“TEAM”) o con il pass “S1″ (per brevi soggiorni), entrambi rilasciati dal paese d’origine.

Come è noto gli “assegni di ricerca” – di fatto l’unica forma di contratto per attività di ricerca post-dottorale in Italia – non sono soggetti al pagamento dell’IRPEF. Questo significa che i giovani UE che mai volessero recarsi in Italia per un post-doc dovrebbero portare con sé la loro carta sanitaria europea per poter usufruire dell’assistenza sanitaria gratuita nel nostro paese. Questo ha senso, in effetti, in un’ottica europea di libera circolazione delle persone e del reciproco scambio dei servizi.

Peccato però che le diverse leggi nazionali non abbiano integrato a pieno questi principi e che molti paesi europei garantiscano la TEAM o il pass “S1″ soltanto in determinate condizioni: l’interessato deve recarsi all’estero per periodi inferiori ad un anno oppure deve continuare ad avere dei redditi (e quindi pagare le conseguenti tasse) nel paese di origine. Come è ovvio, quasi mai si creano le suddette condizioni e molti dei post-doc UE in Italia si trovano davanti a seri problemi, anche solo per una semplice visita generica (oltre a vedersi negati i propri diritti di cittadini europei).

Rispetto al quadro europeo, ogni Regione italiana – in quanto responsabile per la Sanità – ha dato una risposta differente al problema, accettando o rifiutando l’accesso ai servizi sanitari e producendo quindi aberranti disuguaglianze sul territorio nazionale che nessun concittadino europeo potrà mai capire.

Personalmente trovo paradossale – e forse anche cinica, al pari, credo, di tutti quei ricercatori italiani giramondo che hanno conosciuto e sperimentato, all’estero, i preziosi benefici di un serio ed efficace sistema sanitario – questa (non) soluzione escogitata dal nostro paese per “fare fronte” all’eclatante inadeguatezza della legge in materia di “assegni di ricerca”.

Infine, a proposito di paradossi, mi piace concludere con una “voce di corridoio” che mi è stata riferita: in barba ai principi di tutela della cittadinanza europea, sembrerebbe che i ricercatori non-UE in possesso di un permesso di lavoro in cui appaia la parola “studio” siano sistematicamente trattati come studenti e quindi abbiano accesso all’assistenza sanitaria pagando una cifra forfetaria di poco più di cento euro…



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