A volte ritornano. Anche i piumini Moncler. Non ne vedevo da anni, se non qualche sporadico esemplare uscito da chissá dove, addosso a qualche solitario compatriota in visita al museo, in genere un nostalgico ex-adolescente della mia etá che lo indossava con orgoglio passandolo per vintage. Ed ora decine di Moncler si aggirano per le sale del museo e non solo addosso ai turisti italiani (adolescenti e non). Che anche se con due decenni di ritardo, pare che il Moncler sia di gran moda anche nella 'perfida Albione'. Corsi e ricorsi della storia (e della moda)...
A quindici anni anch’io fui investita dal “paninarismo”. Non avevo idea di cosa fosse, ma questo era secondario. Quello che importava era che le felpe colorate della Best Company e le Timberland mi piacevano un sacco. Molto più del look tutto nero dei ‘dark’ o delle borchie dei metallari. E così quasi senza accorgermente diventai anch’io parte di quella fauna colorata che popolava l’Italia degli anni Ottanta. Enzo Braschi ci faceva la parodia al Drive in e nel 1986 i Pet Shop Boys in visita a Milano ci scrissero su una canzone opportunamente chiamata Paninaro, con tanto di video - ovviamente girato a Milano.
Del paninarismo esistevano varianti regionali e persino cittadine. I paninari della corrente bolognese si chiamavano zanari in omaggio al bar Zanarini, luogo in cui la gioventù bene (e non) di Bologna si trovava per mettere in mostra “l’attrezzatura” posseduta (dai jeans alla moto) e fare crepare d’invidia chi non poteva permettersi le marche originali e doveva accontentarsi delle imitazioni. Inutile dire che in quell periodo i vucumprá del centro fecero affari d’oro con le marche taroccate… Frequentando una scuola femminile per aspiranti stiliste di moda, ero circondata da ragazzine impiastricciate di terra abbronzante che indossavano jeans troppo corti per lasciare intravedere il calzino a losanghe colorate, rigorosamente Burlington. Le vere zanare avevano la borsa a secchiello Louis Vuitton, il piumino Moncler e andavano in vacanza a Sestola in inverno dove sciavano con Alberto Tomba. O almeno così dicevano. Da sempre in ritardo su tutto io lo sono stata anche sulla crisi adolescenziale. Quando mio cugino indossava basco e anfibi, ascoltava i Sex Pistols e si ribellava al sistema (e il fatto che lo facesse con un immenso gelato davanti non toglieva nulla alle intenzioni), io non sentivo un particolare bisogno di ribellarmi a nulla se non ai compiti di matematica. Così mi limitavo ad accompagnarlo nelle sue spedizioni da Nannucci alla ricerca di dischi dei Clash, con i miei jeans troppo corti da cui spuntava il calzino a losanghe (rigorosamente) Burlington e fiocchetti rosa tra i capelli (rigorosamente) impermanentati a mo' di barboncino,
Come tutte le fasi della vita, fortunatamente anche quella passò. Non ero tagliata per fare la zanara. Non sapendo sciare la settimana bianca a Sestola nella speranza d’incontrare “Tomba la Bomba” (come l’Alberto nazionale era stato soprannominato a quei tempi) era fuori questione. Ed essendo sempre stata una secchiona detestavo le ditate marroni che la terra abbronzante lasciava sui miei libri. Succede