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Una leggenda riferita nel vecchio “Addio, Mr. Chips!” di Sam Wood dice che, per quanto il “bel Danubio blu” a Vienna non sia blu ma grigio, lo vede blu chi è innamorato. Un po' come l'alito che sa di biancospino di Carlino (Cesare Cremonini) ne “Il cuore grande delle ragazze” di Pupi Avati. Se lui lo fa sentire a un uomo, questi non avverte odor di biancospino, anzi! - ma sì che lo sentono le ragazze, perché sono affascinate. Carlino è stupidotto, è illetterato, non è nemmeno troppo bello, ma appartiene a quella rara specie maschile che è il seduttore naturale. Tutte cascano per lui, e lui non se le lascia scappare. Un giorno il proprietario terriero Osti propone al suo mezzadro spiantato, il padre di Carlino, di far sposare al giovanotto una delle sue due figlie zitelle a scelta. In cambio la famiglia avrà un vantaggio economico, e Carlino una moto Guzzi. Le pagine delle visite di (quasi) corteggiamento sono fra le migliori del film. Solo che Carlino incontra la bellissima figlia adottiva di Osti, Francesca (Micaela Ramazzotti), i due si innamorano, e alla fine si sposano contro tutto e contro tutti. Qui cominciano i veri guai, visto che Francesca sorprende il marito a cornificarla la prima notte di nozze.
L'esile e piacevole film di Pupi Avati non è uno dei suoi grandi film, solidi e commoventi, come negli ultimi anni “Il papà di Giovanna”, “La seconda notte di nozze” o “Il cuore altrove”. E' quasi un divertissement – eppure il suo spettacolo di figurette in rilievo riempe lo schermo e solletica la fantasia.
Pupi Avati, si sa, è un regista romanzesco: non il grande romanzesco alla Scorsese, bensì un piccolo realismo, un romanzesco del bozzetto. Non sembri riduttivo questo! Disegnare un bozzetto non è uno scherzo (il brutto cinema italiano d'oggi, con la sua pletora di modeste commedie, continuamente ci prova e continuamente fallisce, cadendo nella meccanica caricaturale del luogo comune). Nei film di Avati tutto è tangibile. Dal flusso del racconto emergono con una particolarissima concretezza, sensibili e tattili come scabre tessere di mosaico, l'espressione di un viso, una frase, un'imprecazione, un tocco di messinscena, oppure intere figure così felicemente tratteggiate che quasi potrebbero essere protagoniste di un film tutto loro, e restano sullo sfondo, ma così vive che paiono scolpite. Vedi qui la sorella Sultana “che aspetta da 9 anni le mestruazioni” o la zia ex prostituta priva di un occhio (Sydne Rome). E' nel contesto di questa ricchezza evocativa che si affaccia il mirabile grottesco avatiano. Che più d'una volta ha giocato sui ciechi, e anche nel presente film, col dettaglio splendido dell'orchestra di ciechi alla festa di nozze – ciechi, ma uno non lo è, e contempla beato i sederi nudi esibiti da due ragazze ignare.
Questa concretezza corposa si lega assai bene all'evocazione del passato: Avati è un poeta della memoria. Donde l'uso della voce narrante, che rievoca un periodo andato, forse leggendario, certo scomparso, inghiottito dal tempo; qui è la voce del fratello minore Edo. Sono quadretti agrodolci, pervasi di un'aura malinconica, che tuttavia nelle commedie assume spesso un senso di felicità nell'accettazione (più o meno illusa) dell'immediato.
A volte Avati nel suo bozzettismo si perde (“Gli amici del Bar Margherita”). Ma non è il caso de “Il cuore grande delle ragazze”, esile, dicevo, ma dignitoso. Che contiene sequenze felicissime, come quella del matrimonio fallito per mancanza del prete, o la grande pagina della morte del padre (un eccellente Andrea Roncato); e almeno una scena da antologia, folle e poetica, buffa e straziante, quella delle suore in treno; e che comunque contiene, onnipresente, una vera felicità di narrazione.
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