In viale dell’ Astronomia, dove ha sede quella congrega di alienanti di nome Confindustria, un brivido corre lungo le lussuose scrivanie e s’insinua persino nei vol au vent dei buffet: il decreto Ilva. Nessuno osa apertamente difendere l’acciaieria letale, il ricatto lavoro salute, anche se s’intuisce che l’istinto primario sarebbe proprio quello. Però si teme che il provvedimento, già fin troppo prudente e corrivo, possa essere un precedente come dice il presidente di Federacciai dal momento che riguarda situazioni potenzialmente analoghe a quelle del complesso di Taranto o che possa attentare alla certezza dei diritti di proprietà che allontanerebbe i famosi investimenti stranieri, come sostiene Squinzi.
Non ci vuole molto a capire che si tratta di argomenti vuoti destinati ad esprimere disagio e paura di fronte a un commissariamento che si vuole assolutamente circoscritto, ad aziendam, anche se putacaso vi fossero casi pure peggiori: ma dal momento che queste reazioni potrebbero sembrare troppo interessate ecco che Confindustria affida il solito ricatto al falco Bini Smaghi, quello che non voleva andarsene dal board della Bce e che per un periodo fu anche un cocchino di qualche prestigiosa firma “repubblicana” inconsolabile attentatrice di virtù bancarie. Così il Bini avverte che il decreto potrebbe non piacere a Bruxelles e ai suoi poteri visibili e occulti. E certo una politica industriale corretta, con sicurezze per i lavoratori e per l’ambiente, magari con un intervento pubblico potrebbe favorire il perlage su qualche fronte liberista fino alla morte (altrui s’intende).
Ora tutto questo è sconcertante, visto che Confindustria e i suoi soci a titolo personale non hanno mai mancato di magnificare e vantare i passi compiuti dall’industria italiana nella salvaguardia dell’ambiente. Di che si ha paura allora? Si ha paura della realtà che sta dietro il sipario delle parole: è cioè che l’Ilva di Taranto è stata il principale modello di “relazioni industriali del’ultimo ventennio”: pochi investimenti sull’innovazione e sulla sicurezza, produzioni mediocri, manodopera poco specializzata, totale noncuranza per la sicurezza che è stata invece uno dei fattori principali di riduzione dei costi. Il tutto garantito da ampie relazioni e donazioni verso la politica nazionale o locale e la costruzione di reti mediatiche amiche.
Ecco perché l’Ilva fa paura e si sta facendo di tutto per ridurre il decreto a un provvedimento che riguarda solo e soltanto il complesso dei Riva attraverso una campagna politica portata avanti in primis da Casini e Claudio De Vincenti sottosegretario piddino allo sviluppo, ma sostanzialmente condivisa da tutto il milieu politico. E la cui posta, a quanto pare di capire, sfugge anche al M5S che si concentra sull’area a caldo e sul reddito di cittadinanza. Una vita d’uscita come un’altra , ma probabilmente ciò che un cittadino chiederebbe è di rendersi conto che l’Italia intera è ormai stata trasformata in un’area a caldo.