Delitto di via Poma, Roma 7 agosto 1990. Questo non intende essere un articolo di cronaca, quindi se non sapete di cosa sto parlando, penso sia inutile leggere oltre. Se invece, come me, all’epoca eravate abbastanza grandi da aver seguito la vicenda, da essere rimasti sconvolti da questa storia ed esservi fatta una vostra idea personale, allora proseguite pure nella lettura.
Ci sarebbero tante cose da dire in proposito. Ogni tanto qualcuno menziona il fatto e i ricordi assalgono la mente. Non voglio ergermi a giudice, perché non ne ho né le capacità e tanto meno la competenza. Desidererei che questo scritto fosse semplicemente l’insieme delle mie riflessioni, delle domande che in questi anni, un po’ come tutti, mi sono fatta e alle quali nessuno ha saputo dare risposta. Difficilmente chi allora non c’era, potrà farsi un’opinione adesso.
È la tragica vicenda di una bella ragazza di 21 anni, Simonetta Cesaroni, una segretaria romana che nella torrida estate del 1990 ha trovato la morte in un ufficio dell’Aiag in via Carlo Poma a Roma. La ragazza teneva la contabilità per l’Associazione Alberghi della Gioventù, e il 7 agosto era il suo ultimo giorno di lavoro.
L’indomani sarebbe partita per le ferie, assieme a delle amiche. Era un pomeriggio dell’estate romana, dove la gente è in villeggiatura e le strade sono deserte. I pochi rimasti stanno chiusi in casa, oppure trovano ristoro nei cortili dei palazzi. Simonetta era sola in ufficio quel pomeriggio, ed ha trovato la morte cadendo sotto i fendenti del suo assassino, che le ha inferto 29 pugnalate, al volto, agli occhi, alle parti intime. Ho soltanto un anno meno di Simonetta e ho seguito l’intera vicenda.
Come tutti, quell’estate sono rimasta sconvolta dal fatto che una ragazza giovane e bellissima potesse morire in quel modo, andando al lavoro. E che il suo assassino l’avesse fatta franca, perché non fu mai individuato. Senza dubbio si trattò di un omicidio a sfondo sessuale, quindi si diffuse la psicosi del maniaco, del pazzo omicida che colpisce la sua vittima perché la desidera, mentre invece lei lo rifiuta. Un uomo che uccide per un rapporto sessuale negato. Benissimo, vi dico quello che ricordo, altrimenti se andassi a documentarmi nel dettaglio, creerei un altro tipo d’informazione.
Corrado Augias si occupò del caso nella trasmissione televisiva “Telefono giallo”, antesignano dell’odierno “Quarto grado”, e primo ideatore dell’ormai popolare plastico di Bruno Vespa. Dedicò diverse puntate anche “Chi l’ha visto”, allora condotto da Donatella Raffai.
È ovvio a tutti che la stanza del delitto dove Simonetta giaceva supina, seminuda con addosso solo i calzini bianchi di spugna, gli slip e il corpetto del reggiseno calato sul torace, sia stata ripulita da qualcuno che conosceva bene il palazzo, e che se la sorella non fosse piombata col fidanzato ed altre persone a rovinargli i piani nel bel mezzo della serata, questo qualcuno avrebbe fatto sparire il cadavere. La ragazza perse molto sangue, ma quando fu ritrovato il corpo, c’erano solo tracce esigue, in quello che fino a poco prima doveva essersi trasformato in un mattatoio.
Venne incolpato il portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, per una serie di motivi. Tracce di sangue sui suoi pantaloni, rivelatesi in seguito un problema di emorroidi; l’atteggiamento strano e reticente che lui e la moglie hanno sempre avuto nei confronti degli inquirenti; e perché essendo il portiere dello stabile, era l’unico che potesse pulire la scena del delitto con perizia e senza dare nell’occhio.
La faccenda delle chiavi, legate ad un nasto giallo e appese alla porta dell’ufficio dove si trovava Simonetta, che la moglie avrebbe voluto nascondere per impedire alla sorella di entrare, lasciamole stare. Così come la faccenda di un’agendina rossa trovata accanto al telefono, presumibilmente appartenente al portiere, e in seguito sparita e mai più ritrovata. Meglio tralasciare anche il fatto che, prima che il cadavere venisse ritrovato, qualcuno telefonò dalla stanza del delitto ad uno dei titolari dell’Aiag, il cui numero era probabilmente scritto su quell’agendina rossa poi dimenticata accanto al telefono. Lasciamo perdere questi particolari perché non vi sono certezze.
L’impressione fu quella che i due portieri volessero ritardare il più possibile il ritrovamento del corpo, e comunque quella sera la persona che ricevette la telefonata non era a casa, e l’interlocutore non si qualificò. In seguito fu incolpato Federico Valle, il nipote dell’ingegner Valle, un anziano signore abitante nello stabile, aiutato in alcune mansioni quotidiane proprio dal Vanacore. Il ragazzo, problematico e con problemi di anoressia, fu in seguito rilasciato, nonostante presentasse una ferita ad una mano, che venne dichiarata estranea al delitto.
Ecco, nonostante tutto questo, alcuni anni fa, la colpa ricadde sul fidanzato della ragazza, Raniero Busco, che allora fu subito eliminato dalla rosa dei sospettati, poiché era in possesso di un alibi. Con la tecnica del dna, vennero ritrovate delle tracce di saliva sul corpetto e un morso sul seno della ragazza, risultati compatibili rispettivamente con il gruppo sanguigno e l’arcata dentaria del Busco. Lasciamo anche qui stare il fatto che, a detta di tutti, gli indumenti della Cesaroni vennero conservati molto male e subirono delle contaminazioni.
Simonetta amava Raniero, lui un po’ meno, era più freddo. Fermo restando che il ragazzo non avrebbe avuto motivo di ucciderla, che Simonetta gli si sarebbe concessa con piacere, Busco non era mai stato prima in via Poma. Come avrebbe fatto ad ucciderla, pulire la stanza in un palazzo che era come un labirinto, e tornare in pochissimo tempo al bar dove è stato visto da tutti? Essendo il suo fidanzato, era normale che la sua saliva si trovasse sugli indumenti di Simonetta. Il morso poi, potrebbe anche essere stato il livido lasciato da un mollettone per capelli.
Insomma, tante cose malfatte, tanta confusione. Voglia di trovare un colpevole ad ogni costo, ma non il vero colpevole! Ora concentriamoci solo su quello che appare ovvio. Pietrino Vanacore sicuramente ha pulito la scena del delitto. Era l’unico che potesse farlo. La domanda da porsi è questa: perché lo ha fatto? Perché rovinarsi per sempre la vita, invece di avvertire la polizia di aver trovato il cadavere della ragazza? La mia risposta è e sarà sempre questa, perché è l’unica plausibile: voleva coprire qualcuno a lui caro. Una persona molto vicina, magari un familiare o un figlio. Altrimenti i conti non tornano.
E sappiamo che la vita di Vanacore è stata davvero rovinata da questa vicenda, tanto che nel 2009, pochi giorni prima di dover tornare a testimoniare in tribunale nel processo contro Raniero Busco, egli ha scelto di togliersi la vita. L’assassino era certamente qualcuno che frequentava il palazzo e che sapeva muoversi al suo interno. Sono certa che gli inquirenti hanno avuto a che fare con lui da subito, che era circoscritto nella rosa degli indagati, ma che per qualche motivo sia riuscito a farla franca. L’assassino non è stato notato uscire dal palazzo, molto probabilmente perché non è mai uscito.
In molti hanno scritto libri e “verità” su questa vicenda, e si sono scomodati anche i servizi segreti. Io sono convinta che la verità sia molto più semplice. D’altra parte, cos’è che si desidera? Ciò che si vede ogni giorno. Quello che cattura la nostra attenzione. Rimane una famiglia, quella dei Cesaroni, che da 24 anni attende giustizia. Manca un tassello del puzzle, quello fondamentale, a tutti noi che abbiamo seguito la vicenda. C’è un assassino in libertà, un sinistro esempio che si possa uccidere senza venir puniti. Ma soprattutto, rimane lei, Simonetta, che non potrà riposare in pace fino a quando il suo carnefice non sarà consegnato nelle mani della giustizia.
Written by Cristina Biolcati