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Il demone dell'amore.

Creato il 29 novembre 1999 da Missbailing
"Dell’amore e di altri demoni" è il più struggente dei romanzi di Garcia  Marquez, ed è rovescio e complemento perfetto dell’altra meravigliosa epopea sentimentale raccontata in "L’amore ai tempi del colera".
Sierva Maria de Todos los Angeles, bambina eppur donna, santa ed invasata, creatura meravigliosa quanto terrifica, con le sue stregonesche collane yoruba sopra allo scapolare del battesimo ed il rame puro della chioma raggiante, così silenziosa da sembrare invisibile, mentitrice per diletto, cresciuta dagli schiavi, selvaggia e felice nella sua infanzia derelitta e poco amata, è uno dei personaggi più intensi e indimenticabili tracciati dalla penna dello scrittore colombiano.
E’ l’icona angosciosa dell’aspetto più tormentoso dell’Amore che, se per Florentino Ariza
era stato la lenta e dolce agonia di tutta una vita, coronata da un senile compimento, per Sierva Maria e per Padre Cayetano Delaura è affanno del cuore, maledizione che consuma, demenza e follia, demone da esorcizzare, malattia incurabile; perchè, benchè non ci sia "medicina che guarisca quel che non guarisce la felicità", l’Amore è appena un assaggio di felicità effimera, uno spossante e delirante preludio all’agonia.
La conoscenza dell’amore è per l’esorcista disperazione, avidità, voluttà e lussuria; è tentativo invano di non soccombere al peccato, ma è anche consapevolezza che l’amore è il demonio più terribile, quello a cui non si può resistere.

Si rese conto che fluttuava sopra una nuvola personale dove nulla di questo mondo né dell’altro gli importava, a meno che si trattasse dell’immagine terrifica di Sierva Maria umiliata dal diavolo.
Fuggì nella biblioteca ma non riuscì a leggere.
Pregò con la fede esacerbata, cantò la canzone della tiorba, pianse con lacrime di olio bollente che gli arsero le viscere.
Aprì il fagottino di Sierva Maria e sistemò le cose una a una sopra il tavolo.
Le conobbe, le fiutò con un desiderio avido del corpo, le amò, e parlò con loro in esametri osceni, finché non ne potè più.
Allora si denudò il busto, prese dal tiretto del tavolo da lavoro la disciplina di ferro che non aveva mai osato toccare, e cominciò a flagellarsi con un odio insaziabile che non gli concesse tregua finché non ebbe estirpato dalle proprie viscere persino l’ultimo vestigio di Sierva Maria.
Il vescovo, che era rimasto ad aspettarlo, lo trovò che si rivoltolava in una fangaia di sangue e lacrime.

"E’ il demonio, padre mio" gli disse Delaura. "Il più terribile di tutti".


E quindi non può che esserci resa totale a questa passione che logora e consuma e appanna il lume della ragione.
E la confessione di Cayetano Delaura (un tempo Padre confessore), alla causa e vittima della sua dannazione, lo libera infine di tutta la materia torbida che gli impediva di vivere, mettendo a nudo il fragore di bufera del suo cuore.

"Oh bel sembiante per mia sventura incontrato".
Lei non capì.
"E’ un verso del nonno della mia trisnonna" le spiegò lui.
"Ha scritto tre egloghe, due elegie, cinque canzoni e quaranta sonetti. E quasi tutti per una portoghese senza grandi attrattive che non fu mai sua, in primo luogo perché lui era sposato, e in secondo perché lei si sposò con un altro e morì prima di lui".

"Frate pure lui?"
"Soldato" disse Cayetano.
Qualcosa si mosse nel cuore di Sierva Maria, perché volle riascoltare il verso.
Lui lo ripeté, e questa volta proseguì, con voce intensa e bene articolata, fino all’ultimo dei quaranta sonetti del gentiluomo d’amore e armi, don Garcilaso de la Vega, morto nel fiore degli anni per una sassata in guerra.

Quando ebbe finito, Cayetano prese la mano di Sierva Maria e se la posò sul cuore. Lei vi sentì dentro il fragore della sua bufera.
"Sono sempre così" disse lui.
E senza lasciare tempo al panico si liberò della materia torbida che gli impediva di vivere. Le confessò che non passava un istante senza pensare a lei, che tutto quanto mangiava e beveva aveva il sapore di lei, che la vita era lei a ogni ora e ovunque, come solo Dio aveva il diritto di esserlo, e che il godimento supremo del suo cuore sarebbe stato morire con lei. Continuò a parlarle senza guardarla, con la stessa fluidità e lo stesso calore con cui pregava, finché ebbe l’impressione che Sierva Maria si fosse addormentata.
Ma era sveglia, con i suoi occhi di cerva impaurita fissi su di lui. Si azzardò solo a domandare:

"E adesso?"
"Adesso nulla" disse lui. "Mi basta che tu lo sappia."


E la confessione apre le porte ad una felicità effimera e già tormentosa, con gli Amanti che declamano l’un l’altro, piangendo con lacrime vive, sonetti d’amore, scombinandoli e sovvertendoli, e non si saziano mai di parlare del loro dolore, di spossarsi di baci e di scambiarsi prove eccessive.
Ma Cayetano, che nel suo delirio si era dichiarato capace di qualsiasi cosa per l’Amata, si illude nella sua stoltezza che l’amore sia sufficiente ad entrambi per essere felici, e che la libertà di amarsi non dipenda da loro ma da un’entità superiore; per questo rifiuta a Sierva Maria l’unica e vera prova d’Amore: quella di rimanere con lei o di portarla via dalla sua prigione, firmando così due condanne.
La condanna a morte dell’Amata che verrà trovata "morta d’amore sul letto con gli occhi raggianti e la pelle di una neonata", dopo aver sognato di nuovo il loro sogno in comune, la finestra aperta sui campi innevati di Salamanca e il grappolo di acini dorati, mangiati a due a due con l’ansia di finirli e di mettere fine alla sua vita;  e la sua di condanna, all’estrema demenza.

Demenza cui non servirà a sottrarlo neppure la logica e disincantata considerazione del Dr. Abrenuncio secondo cui
"l’amore era un sentimento contro natura, che dannava due sconosciuti a una dipendenza meschina e insalubre, tanto più effimera quanto più intensa".

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