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Il deserto dei Tartari (Cap.18) – Dino Buzzati (estratto)

Creato il 26 febbraio 2016 da Maxscorda @MaxScorda

26 febbraio 2016 Lascia un commento

Capitolo 18
L’uscio di casa fu aperto e Drogo sentì subito l’antico odore domestico, come quando, bambino ritornava in città dopo i mesi di estate in villa. Era odore familiare ed amico, eppure, dopo tanto tempo, vi affiorava alcunché di meschino. Gli ricordava sì gli anni lontani, la dolcezza di certe domeniche, le liete cene, la fanciullezza perduta, ma parlava anche di finestre chiuse, di compiti, di pulizia mattutina, di malattie, di litigi, di topi. "Oh, signorino!" gli gridò esultante la buona Giovanna che gli aveva aperto la porta. E subito arrivò la mamma; grazie a Dio non ancora cambiata. Seduto in salotto, mentre tentava di rispondere alle tante domande, sentiva mutarsi la felicità in tristezza svogliata. La casa gli pareva vuota in confronto ad un tempo, dei fratelli uno era andato all’estero, un altro era in viaggio chissà dove, il terzo in campagna. Soltanto la mamma restava e anche lei dopo un po’ dovette uscire per una funzione in chiesa dove la attendeva un’amica. La sua camera era rimasta identica, così come l’aveva lasciata, non un libro era stato mosso, pure, gli parve di un altro. Si sedette sulla poltrona, ascoltò il rumore dei carri nella via, l’intermittente vocio che veniva dalla cucina. Solo se ne stava nella sua stanza, la mamma pregava in chiesa, i fratelli erano lontani, tutto il mondo viveva dunque senza alcun bisogno di Giovanni Drogo.
Aprì una finestra, vide le case grigie, i tetti dopo i tetti, il cielo caliginoso. Cercò in un cassetto i vecchi quaderni di scuola, un diario che aveva tenuto per anni, certe lettere; si stupì di aver scritto lui quelle cose, non se ne ricordava proprio, tutto si riferiva a strani fatti dimenticati. Si sedette al piano, tentò un accordo, riabbassò il coperchio della tastiera. E adesso? si domandava.
Straniero, girò per la città, in cerca di vecchi amici, li seppe occupatissimi negli affari, in grandi imprese, nella carriera politica. Gli parlarono di cose serie e importanti, stabilimenti, strade ferrate, ospedali. Qualcuno lo invitò a pranzo, qualcuno si era sposato, tutti avevano preso vie diverse e in quattro anni si erano già fatti lontani. Per quanto tentasse (ma anche lui forse non era più capace) non riusciva a far rinascere i discorsi di un tempo, gli scherzi, i modi di dire. Girava la città in cerca dei vecchi amici – ed erano stati molti – ma finiva per ritrovarsi solo su un marciapiedi, con tante ore vuote davanti prima di far venire la sera. Di notte stava fuori di casa fino a tardi, determinato a divertirsi. Ogni volta usciva con le solite vaghe speranze giovanili di amore, ogni volta tornava deluso. Riprese a odiare la via che lo riconduceva a casa solitario, sempre uguale e deserta.

Ci fu in quel tempo una grande festa da ballo e Drogo, entrando nel palazzo in compagnia dell’amico Vescovi, l’unico che avesse ritrovato, si sentiva nelle migliori condizioni di spirito. Benché fosse già primavera, la notte sarebbe stata lunga, uno spazio di tempo pressoché illimitato; prima dell’alba potevano succedere tante cose, esattamente Drogo non era in grado di specificarle ma certo lo attendevano parecchie ore di incondizionato piacere. Aveva infatti cominciato a scherzare con una ragazza vestita di viola e non era ancora suonata mezzanotte, forse prima del giorno sarebbe nato l’amore; quand’ecco il padrone di casa lo chiamò per mostrargli dettagliatamente il palazzo, lo trasse per certi labirinti e cunicoli, lo tenne relegato nella biblioteca, lo obbligò a considerare pezzo per pezzo una collezione d’armi, gli parlava di questioni strategiche, di facezie militari, di aneddoti di Casa reale, e il tempo intanto passava, gli orologi si erano messi a correre spaventosamente. Quando Drogo riuscì a liberarsi, ansioso di tornare alle danze, le sale si erano già mezzo vuotate, la ragazza vestita di viola era scomparsa, probabilmente già tornata a casa.
Invano Drogo tentò di bere, invano rise senza senso, neanche il vino più gli serviva. E la musica dei violini si faceva sempre più fioca, a un certo punto essi suonarono letteralmente a vuoto perché nessuno più ballava. Drogo si trovò, con la bocca amara, fra gli alberi del giardino, udiva incerti echi di un valzer mentre l’incantesimo della festa svaniva e il cielo si faceva lentamente pallido per l’alba vicina. Tramontando le stelle, rimase Drogo, fra le nere ombre vegetali, a vedere sorgere il giorno, mentre ad una ad una le carrozze dorate si allontanavano dal palazzo. Ora anche i suonatori tacquero e un valletto andò girando per le sale abbassando le luci. Da un albero, proprio sopra Drogo, giunse acuto e freschissimo il trillo di un uccellino. Il cielo diventava progressivamente più chiaro, tutto riposava silenzioso nella attesa fiduciosa di una buona giornata. In quel momento – Drogo pensò – i primi raggi del sole ave vano già raggiunto i bastioni della Fortezza e le sentinelle infreddolite. Il suo orecchio aspettò inutilmente un suono di tromba.
Attraversò la città addormentata, ancora immersa nel sonno, aprì con esagerato rumore il portone di casa. Nell’appartamento già filtrava dalle fessure delle persiane un poco di luce. "Buonanotte, mamma" egli disse passando nel corridoio e dalla stanza, al di là della porta, gli parve che come al solito, come nei giorni lontani quando rincasava a notte alta, gli rispondesse un suono confuso, una voce amorevole anche se grondante di sonno. E continuò quasi pacificato verso la propria stanza, quando si accorse che anche lei parlava. "Che cos’hai, mamma?" chiese nel vasto silenzio. Nello stesso istante capì di avere scambiato il rotolio di una carrozza lontana con la cara voce. In verità la mamma non aveva risposto, i passi notturni del figlio più non la potevano destare come una volta, si erano fatti come estranei, quasi il loro suono fosse col tempo cambiato. Una volta i suoi passi la raggiungevano nel sonno come un richiamo stabilito. Tutti gli altri rumori nella notte, anche se molto più forti, non bastavano a svegliarla, né i carri giù nella strada, né il pianto di un bambino, né gli ululati dei cani, né le civette, né l’imposta che sbatte, né il vento dentro le gronde, né la pioggia o lo scricchiolare dei mobili. Soltanto il passo di lui la svegliava, non perché fosse rumoroso (Giovanni anzi andava in punta di piedi).
Nessuna speciale ragione, soltanto che lui era il figliolo. Ma adesso dunque non più. Adesso lui aveva salutato la mamma come una volta, con la medesima inflessione di voce, certo che al familiare rumore dei suoi passi si fosse destata. Invece nessuno gli aveva risposto fuori che il rotolio della lontana carrozza. Una stupidaggine, pensò, una ridicola coincidenza, poteva anche darsi. Eppure gliene restava, mentre si disponeva a entrare nel letto, una impressione amara, quasi l’affetto di una volta si fosse appannato, come se fra loro due il tempo e la lontananza avessero lentamente disteso un velo di separazione.


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