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“Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati

Creato il 27 gennaio 2011 da Abo

“Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati“Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati
Il deserto dei Tartari
Dino Buzzati, 1940
Mondadori
234 pagine, 9 euro

Una nota per chi non avesse letto il romanzo: pressoché tutte le informazioni sulla trama scritte di seguito sono presenti anche nella quarta di copertina, in cui viene svelato anche il finale del romanzo.
Se però non volete alcuna anticipazione, non leggete questa recensione (e neppure la quarta dell’edizione Mondadori). Correte però a procurarvi il romanzo, questo sì.

All’età di ventisei anni e fresco di nomina come ufficiale, Giovanni Drogo parte dalla città per  raggiungere la fortezza Bastiani, dove lo attende un periodo di servizio.
Già dall’arrivo a destinazione, Drogo intuisce che c’è qualcosa che non va in quell’enorme edificio dalle mura gialle, e chiede un trasferimento lampo. Ne parla con il maggiore Matti, e le risposte che riceve suonano subdole, sottilmente allusive.
Il trasferimento si potrebbe fare, certo, ma sarebbe forse meglio aspettare qualche mese, per non dare un dispiacere al colonnello. Non che la richiesta possa nuocere alla sua carriera, ma insomma, qualche mese in fin dei conti è ben poca cosa, e permetterebbe di salvare la forma.
Drogo accetta, e non serve davvero un grande intuito (o aver letto la quarta di copertina) per rendersi conto che lasciare la fortezza diventerà sempre più difficile.
Non perché si venga tenuti prigionieri, ma per una strana dipendenza, un languore di cui la fortezza è sia causa che soluzione.
Anche quando Drogo ottiene una licenza e ritorna per qualche giorno alla sua città, non fa che ripensare ai turni di guardia, al tempo passato a scrutare l’orizzonte nella speranza che il nemico attacchi, e che la guerra riesca a risvegliare la guarnigione dal torpore.
La stessa fascinazione che attira Drogo sortisce gli stessi effetti su tutti i suoi commilitoni: la maggioranza di loro passa la vita nella fortezza, invecchiando nell’attesa di qualcosa che non arriva mai.
Un tratto distintivo di quello che accade dentro alla fortezza sembra essere la circolarità: gli avvistamenti, i turni, gli avvicendamenti degli ufficiali, tutto si muove secondo un percorso sempre uguale a se stesso, e che a lungo andare non è poi molto differente dall’immobilità.

L’esistenza di Drogo invece si era come fermata. La stessa giornata, con le identiche cose, si era ripetuta centinaia di volte senza fare un passo innanzi. Il fiume del tempo passava sopra la fortezza, screpolava le mura, trascinava in basso polvere e frammenti di pietra, limava gli scalinie le catene, ma su Drogo passava invano; non era ancora riuscito ad agganciarlo nella sua fuga.

È però sensazione illusoria, perché invece il tempo passa eccome, e Drogo ne riconosce i segni tra le rughe del volto, tra le ciocche bianche che pian piano gli conquistano la testa.
E quando si capisce che sarebbe meglio tornare a casa, riallacciare tutti i rapporti che nel tempo si sono sfilacciati, ormai è troppo tardi. Che la vita là fuori è andata avanti, e il posto che Drogo vi occupava ormai non esiste più. Glielo conferma anche il maggiore Ortiz:

Ha ottenuto un certo vantaggio per l’anzianità di carriera, ma pensi quanto più le sarebbe servito starsene in città. È rimasto tagliato fuori dal mondo, nessuno si ricorda più di lei…

Insomma, la fortezza è ormai l’unica realtà che resta, l’unico luogo dove l’identità abbia un senso.
Magra consolazione, che nasconde una beffa ancor più atroce.
Quando finalmente il nemico si avvicina alla fortezza, quando la battaglia potrebbe riscattare almeno in parte tutti gli anni trascorsi ad aspettare, Drogo è vecchio e malato. Inutile. Viene allontanato dalla fortezza, e muore in una locanda.

Sul Deserto dei Tartari sono stati scritti libri su libri, e certo non ho l’erudizione per aggiungere alcunché di originale o fantasioso. Posso solo riportare un paio di sensazioni che ho provato nel leggerlo, e lasciare a chi è più preparato di me il compito di sviscerare il romanzo.
Le mie sensazioni, quindi; su tutte, un senso di impotenza insopportabile. Guardare Drogo aggirarsi per la fortezza mi ha fatto lo stesso effetto che provai nel seguire K. mentre gironzolava alle falde del Castello.
Formiche intrappolate in un bicchiere.
Quello con Kafka è un paragone assai frequente, basta leggere quello che ne diceva lo stesso Buzzati:

Da quando ho cominciato a scrivere, Kafka è stato la mia croce. Non c’è stato mio racconto, romanzo, commedia dove qualcuno non ravvisasse somiglianze, derivazioni, imitazioni.

Resta il fatto che io lo trovo un paragone calzante, con buona pace di Buzzati che sembra considerarlo più come un’accusa di scarsa originalità che come lusighiero accostamento.
Altra sensazione che ho provato leggendo è una sorta di morbosa curiosità.
Mi si passi il paragone azzardato, ma che spero renda l’idea: è stato un po’ come trovarsi su un cavalcavia, e guardare due macchine che corrono una verso l’altra a folle velocità e senza alcuna via di fuga. Non ci sono dubbi che ci sarà l’impatto, esattamente come sai già che Drogo la sua guerra non la combatterà mai. Eppure se non riesci a spostare lo sguardo è perché vuoi vederlo accadere, vuoi vedere le lamiere contorte (nella fattispecie, la pelle di Drogo che si fa grinzosa).
Infine, un ultimo passaggio con le parole di Buzzati, utile per dare una sbirciatina oltre la costruzione letteraria, dritto al cuore dell’ispirazione:

(l’opera nasce) dalla monotona routine redazionale notturna che facevo a quei tempi. Molto spesso avevo l’idea che quel tran tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. È un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nell’esistenza ad orario delle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva.

Eh, ad avercene di istinto così.

Pro:
Quando in un romanzo succede poco ma non ti annoi mai, significa che sta succedendo molto nella tua testa di lettore.
Chapeau.

Contro:
I refusi sono l’unica cosa che non va, in un romanzo come questo.


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