Il destino di un figlio
di Iannozzi Giuseppe aka King Lear
Quando Carlo varcò le porte del Pronto soccorso, i paramedici già sapevano che di lì a poco avrebbe tirato le cuoia. Non era il primo caso, e non sarebbe stato l’ultimo.
L’ambulanza era arrivata nel giro di pochi minuti, che avrebbero potuto fare la differenza se solo ci fossero state delle speranze o un Dio in cui credere sul serio. L’avevano raccolto dal letto d’asfalto così come si raccoglie un uccellino ferito, con una delicatezza piena di commozione.
Gli avevano tagliato la strada e Carlo era volato dal motorino, che da tempo usava per recarsi in Facoltà dove sudava sette camicie per diventare un bravo chirurgo. Figlio di due poveri contadini già avanti con l’età, Carlo aveva deciso di diventare un dottore il giorno in cui sua madre, Giovannina, aveva avuto il primo infarto. La donna se l’era poi cavata, ma Carlo non aveva mai dimenticato il senso di impotenza e frustrazione che aveva provato di fronte alla madre più di là che di qua: quel giorno aveva giurato a sé stesso che lui avrebbe imparato a salvare delle vite umane.
Era rovinato a terra adagiandosi su un fianco.
Non si era fatto male sul serio.
Ma mentre tentava di rimettersi in piedi, una macchina, sbucata da chissà dove, l’aveva catapultato in aria. E subito era schizzata via, con il cofano ammaccato sporco di sangue.
Il colpo era stato fracassante.
Non era robusto, Carlo. Non più di cinquanta chili.
L’auto l’aveva centrato in pieno.
L’impatto era stato così tanto forte da fargli volare via il casco.
Quando i paramedici lo raccolsero da terra, subito scossero il capo: trauma cranico, diverse costole rotte, un braccio e le gambe spezzate in due. E con tutta probabilità chissà quali disastrose emorragie interne erano già in atto.
Lo raccolsero facendo attenzione a respirare piano, timorosi quasi che un fiato di troppo avrebbe potuto spezzare per sempre la vita del giovane.
Lo conoscevano. Qualche anno prima erano stati loro a portare Giovannina, la madre di Carlo, in ospedale dove, per puro miracolo, l’avevano strappata alla morte.
Lo sapevano che il ragazzo non ce l’avrebbe fatta. Lo caricarono sull’ambulanza e partirono a sirene spiegate.
Mentre lo portavano Carlo ebbe un arresto cardiaco.
Lo rianimarono.
Non lo sapevano neanche loro come c’erano riusciti, ma il cuore di Carlo aveva ripreso a battere.
A Giovannina non avevano avuto cuore di dirle che suo figlio era grave.
Le avevano detto soltanto che aveva avuto un piccolo incidente.
I due vecchi genitori attendevano posteggiati in sala d’attesa. La madre si tormentava e pregava stringendo il Crocifisso al petto. Pregava Dio perché salvasse suo figlio. Pregava il Dio Padre perché operasse quel miracolo che lui, nella sua smania di grandezza, a Gesù aveva negato.