Nelle tavole di Matt Dixon, illustratore freelance dal Regno Unito, persiste il tema robotico, che è una delle ossessioni moderne. E mie.
E tuttavia, rispetto ai predecessori già presentati in questa rubrica, il robot come attore della composizione assume diverso significato.

Sono robot che agiscono dopo un'apocalisse, sostituendo la presenza dei loro creatori, avendola ereditata?
Possibile.
Eppure, si nota un valore fondamentale, che è la semplicità geometrica della quale questi robot sono composti.
Sono forme semplici, sfere, cilindri, sovrapposti e/o composti. Direi quasi che, più che le azioni che essi compiono, questi attori, e i residui di natura in mezzo ai quali le compiono, il focus che queste tavole esprimono è celato nella loro stessa figura, o posa.
Essi sono simboli.



Il robot che medita sotto la roccia si confonde col paesaggio, non assume da esso alcun significato. Questo Totem assume il senso che noi gli attribuiamo. E non è diverso in alcun modo dalle rocce.

Qui c'è un robot ubriaco, che canta alla luna.
Ecco, guardatelo bene. Osservate il dettaglio sulla panchina, una sorta di ricetrasmittente, qualcosa che permette a qualcun altro di ascoltare i deliri dell'ubriaco.

E infine, il robot seduto sulla collina ( Interval) che guarda il cielo, ma ha occhi bui. Come quasi tutti i robot dei lavori di Dixon. Quasi (perché Zadok li ha illuminati).
Credo sia un dettaglio importante, questo degli occhi spenti, perché conferma che i robot non agiscono, sono manichini messi in posa per comunicare.

La specie umana che li ha creati è viva e vegeta, non è estinta, in questi lavori. Non sono tavole pessimiste, ma esistenzialiste e simboliste. La chiave è concettuale.