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Il diritto di plagio (M. Panarari)

Creato il 27 febbraio 2011 da Mdeconca

Il diritto al plagio

Da Gutenberg a Google, l’utilità nella storia della pirateria intellettuale

I pirati non sono solo quelli della Malesia dei romanzi di Salgari, né quelli dei Caraibi del kolossal blockbuster della Walt Disney con Johnny Depp. Da qualche tempo, assistiamo a un profluvio di libri che sottopongono la pirateria all’ottica degli studi culturali, dopo essere già stata oggetto di attente analisi da parte della storia economica. E, dunque, si è ormai consolidata l’immagine dei corsari anarcocapitalisti (che, possiamo immaginare, molto sarebbero piaciuti al filosofo Robert Nozick), avanguardisti della Lex Mercatoria e incursori di una “nuova economia”, dotati, al proprio interno (ovvero come equipaggio) di regole liberali e democratiche (è quanto ci ha raccontato, tra gli altri, il libro di Peter Leeson L’economia secondo i pirati. Il fascino segreto del capitalismo, Garzanti).
Al tempo stesso, chi di filibusta (che può essere “illuminata”, come una certa versione del capitalismo, giustappunto) ferisce, di filibusta può perire. E, infatti, contro il Nuovo ordine neoliberale, così come, nel passato, contro le leggi del Capitale divenuto establishment, si scagliano altri pirati, e il tesoro consiste non in scrigni di monete d’oro o di preziosi, ma nei più immateriali dei beni, le idee. La proprietà intellettuale (o, al contrario, la rivendicazione del suo carattere di common e di bene comune) è, infatti, una delle principali poste in gioco e una delle più straordinarie “merci” del mondo globalizzato, da cui le battaglie, non di oggi, ma retrodatabili di qualche secolo, per normare o “liberare” quanto più possibile la sua circolazione.
Partito dei pirati, non a caso, è il nome che si danno le postmodernissime formazioni politiche (molto popolari presso i giovani) che hanno ingaggiato la lotta per la revisione dei brevetti, il libero scambio dei files su Internet e l’abbattimento- superamento del copyright, riuscendo a sbarcare al parlamento europeo dopo il clamoroso exploit elettorale in Svezia del 2009.
La storia della proprietà intellettuale (“da Gutenberg a Google”, come specifica il sottotitolo), campo privilegiato di battaglia tra le ragioni della creatività e quelle del mercato, è il tema di un libro affascinante – e monumentale – scritto dallo storico dell’università di Chicago Adrian Johns e consacrato a quest’altra forma di Pirateria (Bollati Boringhieri, pp. 718, euro 39). Un viaggio nella cultura occidentale che si apre, naturalmente, con l’invenzione della stampa e con la prima definizione di pirateria nei termini di un’appropriazione indebita della proprietà intellettuale altrui, elaborata – e come poteva essere altrimenti, visto che si sta parlando della nazione culla del capitalismo… – nell’Inghilterra della Rivoluzione, a metà del Seicento.
Quando il termine “pirata” viene associato, nei dizionari di lingua inglese (che cominciarono ad apparire nei decenni appena precedenti), alla figura di colui il quale «stampa abusivamente l’opera di qualcun altro», esplode in occasione delle dispute tra medici ed eruditi con riferimento ai plagi di scoperte e rimedi, e comincia a fare capolino tra le pagine di alcuni grandi delle lettere, da Swift a Defoe (che indirizzava i propri strali contro i “briganti” responsabili di ristampe non autorizzate), da Addison a Pope, per poi passare nei vocabolari di altre lingue continentali tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, in Francia e, successivamente, in Italia e Germania. Ma “filosofia pirata” fu, altresì, quella che animò le campagne a favore della libertà di stampa e di espressione contro la volontà della corona di rilasciare patenti di esclusiva, o l’attività di grandi intellettuali come Newton, Voltaire e Rousseau che si nascondevano dietro il paravento di pamphlet e libri non autorizzati per sostenere tesi ardite, e poterne disconoscere la paternità nel caso di reazioni violente da parte dei poteri costituiti (salvo inveire poi contro gli stampatori abusivi delle loro opere uscite alla luce del sole).
Il libro ci offre una cavalcata fascinosa nell’Inghilterra georgiana della serrata campagna contro il copyright (la prima legge era stata votata nel 1710) condotta dal bizzarro aristocratico e bibliofilo Sir Samuel Egerton Brydges, ossessionato dal desiderio di vedersi riconosciuto come barone Chandos di Sudeley e promotore di una vera e propria “controrivoluzione della stampa” con la sua stamperia “illegale” di Lee Priory. E in quella vittoriana del trionfo della scienza e del progresso dove nasce il diritto d’autore e si scatena un furioso dibattito intorno al riconoscimento della “creatività” alla base delle invenzioni tecnologiche e mediche mediante i brevetti. Fino alle registrazioni musicali abusive dell’età della radio (con tanto di irruzioni poliziesche nelle abitazioni private della scarsamente liberale, sotto questo profilo, Gran Bretagna, da cui la discussione – altro tassello fondamentale di questa “epopea” – sul tema della privacy), alla sempre fiorente pirateria farmaceutica (con gli enormi interessi in gioco di Big Pharma) e a quella digitale, dalle controculture all’odierno hacking, la storia dei nostri giorni.
C’è tantissimo in questo volume, tra i cui pregi va annoverato anche quello di essersi ispirato a un approccio decisamente laico, in grado di riconoscere e distribuire torti e ragioni a entrambe le posizioni in campo: da un lato, la pirateria ha svolto un ruolo fondamentale a beneficio della circolazione dei saperi e delle idee e, dall’altro, però, al tempo stesso, l’appropriazione furtiva e il plagio indeboliscono il carattere di autenticità e l’indipendenza della produzione intellettuale.
La pirateria è uno dei volti della Modernità, ci dice Johns, figlia di quell’Illuminismo che fu sempre, intimamente, corsaro e quindi, nel bene come nel male, fa (e farà) parte del nostro paesaggio culturale e sociale.Massimiliano Panarari (da Europa)Enhanced by Zemanta

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