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Esiste un genere cinematografico che non conosce crisi, e che viene sempre fuori puntualmente di questi tempi: è il cosiddetto 'film da Oscar': dicesi così, infatti, del classico prodotto 'perfetto', ben recitato, con confezione extra-lusso e politicamente corretto al punto giusto. Sono quei film che sembrano costruiti apposta per accaparrarsi il più alto numero possibile di statuette (anche se poi non sempre succede), e che consentono ai protagonisti la classica 'prova d'attore', vale a dire un ruolo confezionato apposta per consentire ad un bravo interprete di fare breccia nel cuore dei giurati dell'Academy. E bisogna dire che gli inglesi sono maestri in questo: dai tempi di Shakespeare in Love, passando per Ragione e Sentimento, Espiazione, The Hours, The Queen, Casa Howard... tutti rigorosamente premiati o quasi.
Ecco, Il discorso del re non è che l'ultimo esponente in ordine cronologico di questo particolarissimo genere, e rispecchia fedelmente tutte le caratteristiche fin qui elencate: ha una coppia di attori straordinari (Colin Firth e Geoffrey Rush), una sceneggiatura impeccabile, una cura maniacale dei dettagli (costumi, scene, musiche, trucco). Il classico film che, insomma, si presenta ai tuoi occhi come un'opera d'arte ma... badate bene, senza esserlo affatto.
Eh sì, perchè i film 'da Oscar' presentano praticamente tutti lo stesso punto debole: sono accuratissimi nella messinscena, ma difficilmente emozionano e coinvolgono. Sono algidi, distaccati, impersonali, e lasciano agli attori l' 'onere' di scaldare i cuori degli spettatori.
E anche Il discorso del re non fa eccezione alla regola: senza la 'coppia d'oro' prima citata sarebbe davvero difficile lasciarsi prendere dall'entusiasmo per una storia tutto sommato non troppo interessante, e abbastanza oscura ai più: quella di re Giorgio VI d'Inghilterra, padre dell'attuale regina Elisabetta e uomo pacato, timido e scostante, con un 'difetto' piuttosto imbarazzante per un sovrano: l'essere balbuziente e antrofobico, così da spaventarsi e non riuscire a spiccicare parola ogni volta che deve presentarsi in pubblico o leggere un discorso alla radio, con milioni di persone in ascolto. Se poi aggiungete che il timido re ha alle spalle un'infanzia difficile, un fisico non proprio da atleta, una salute instabile e un carattere volubile e irascibile, le cose si complicano ulteriormente... ovviamente vengono consultati tutti i più importanti psicologi e scienziati d'Inghilterra, ma nessuno riesce a cavare un ragno da un buco. Finchè, come nelle favole, ecco che a un certo punto si materializza il 'salvatore', nelle sembianze di un logopedista 'sui generis', drammaturgo fallito ed ex-birraio, perennemente squattrinato, che con metodi poco ortodossi ma efficaci riesce finalmente a far leggere al sovrano un discorso accettabile e... decisamente importante: la dichiarazione di guerra dell'Inghilterra alla Germania (siamo nel 1939).
Intendiamoci: parlo di storia 'poco interessante' dal punto di vista cinefilo, nel senso che onestamente non si sentiva la necessità di portare sullo schermo la biografia di un re balbuziente. Ma non voglio assolutamente sminuire nè prendere in giro chi soffre di questa patologia, nel modo più assoluto. Anche perchè solo chi ne ha sofferto capisce bene quello che comporta: grande vergogna e grande timidezza, con conseguente terrore di rapportarsi col mondo esterno. La balbuzie non è malattia, ma uno stato mentale, psicologico: nasce dall'insicurezza, dall'ansia, dalla paura della gente, e l'unico modo per guarirne è sforzarsi di vincere queste fobie raggiungendo una maggiore autostima e tranquillità interiore.
Esattamente quello che cerca di far capire a Giorgio VI lo stralunato 'dottor' Logue (un bravo Geoffrey Rush) riuscendo alla fine nella sua missione. E il finale, guardacaso, è l'unico momento davvero commovente, grazie soprattutto alla consueta prestazione-monstre di Colin Firth, che prenota con pochi patemi d'animo l'Oscar per il miglior protagonista. Ma rimane l'unico 'scatto' in avanti di un film bello ma 'ingessato'.
VOTO: * * *
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