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Il dispiacere dell’onestà

Creato il 11 ottobre 2015 da Albertocapece

magna-nasAnna Lombroso per il Simplicissimus

Abbiamo avuto modo di apprendere ancora una volta – qualora ve ne fosse stato bisogno –  che l’onestà è un’indole o un comportamento soggetto a interpretazioni quanto meno arbitrarie, a umori, criteri e unità di misura perlopiù partigiane e discrezionali. Di volta in volta può essere un marchio doc utile a orientare le scelta dei consumatori, o mutandona da indossare per coprire vergogne proprio come quelle imposte alle impudiche gambe delle sedie vittoriane, provvidenziale foglia aggiunta a quadri  spudorati nello studio di leader peraltro sporcaccioni. Può essere istinto irrinunciabile che ormai condanna a emarginazione e isolamento, ma anche etichetta, tenacemente adesiva soprattutto in fase pre elettorale, requisito propagandistico da spendere indissolubilmente legato all’esuberante irruzione sullo scenario pubblico di soggetti “nuovi”, giovani e non ancora contaminati da vizi e degenerazioni del potere. Può essere accreditata e convalidata tramite loden al posto di pomposi doppiopetto gessato di Caraceni, sgargianti quanto informi giacchette fucsia o pistacchio indossate sopra la divisa da gaulaiter, grazie al permanere almeno formale in lisi e angusti vincoli matrimoniali contrapposti all’organizzazione coattiva di cene eleganti, o anche in virtù di abitudini di vita segnate da una  morigerata moderazione esibita anche a scopo pedagogico e garantita nella sua continuità dinastica da profittevoli azionariati e da uno sfruttamento pieno di discrezione e bon ton rispetto a sgangherate, esibizionistiche e recenti fortune, peraltro accumulate con le stesse modalità.

È che un ceto dirigente col favore di una gerarchia ecclesiastica che ogni giorno giustifica e infligge l’invadenza nel contesto statale e nelle esistenze di tutti, non credenti compresi, come fosse un obbligo morale tanto che autorizza direttamente un regime a sospendere le elezioni durante il Giubileo pagato dai cittadini,  ha imposto una sua deontologia e una sua etica pubblica, con indicatori, misuratori, gerarchie e graduatorie assolutamente opinabili, parziali, soggettivi e quindi ingiusti, almeno a guardare la definizione di onestà sul dizionario, che dal latino honestas,  indicherebbe la qualità umana di “agire e comunicare in maniera sincera, leale e trasparente, in base a principi morali ritenuti universalmente validi e che  comporta quindi  l’astenersi da azioni riprovevoli nei confronti del prossimo, sia in modo assoluto, sia in rapporto alla propria condizione, alla professione che si esercita ed all’ambiente in cui si vive, contrapponendosi  ai più comuni disvalori nei rapporti umani, quali l’ipocrisia, la menzogna ed il segreto”.

La loro è un’etica che permette e legittima la legge del più forte,  grazie all’applicazione di indici assolutamente “capricciosi”, parziali, in modo da istituire categorie variabili e gerarchie dell’onestà e di quelli per i quali è obbligatoria, salvo perdere il posto, andare in galera, diventare oggetto di pubblica riprovazione, quale sia l’entità del delitto e dei suoi effetti sulla collettività. Mentre per altri, inviolabili, impunibili e impuniti, è un optional, un valore aggiunto poco pregevole, deriso in quanto ostacolo all’affermazione della propria individualità e delle proprie ambizioni e aspettative, al dispiegarsi della libera iniziativa imprenditoriale che altrimenti agirebbe al fine di contribuire al benessere di tutti, per ragionevole e pragmatica applicazione del compromesso necessario si direbbe nella gestione della cosa pubblica. Così diventa un prodotto negoziabile, che si sa ognuno ha un prezzo, così fan tutti, tocca difendersi e così via, oggetto dell’adozione di unità di misura direttamente dipendenti dall’appartenenza a lobby o cricche, all’affiliazione a partiti e cupole, alla fidelizzazione a ideologie, al grado di parentela. È inevitabile che per chi sta  in alto i reati vengano retrocessi al rango di inopportunità, piccole negligenze, ingenue sventatezze, delicate sbadataggini, perdonabili in chi ha molto da fare e spesso imputabili a  collaboratori inaffidabili, innocenti evasioni, comprese quelle fiscali, candide distrazioni, comprese quelle dalle nostre tasche, che avvengono non sotto forma di furti con destrezza, bensì di riforme, provvedimenti, decreti legge, espropriazione di beni comuni tutti in nome del nostro interesse.

In questo marasma anche semantico spesso vengono accreditati, nel tentativo, che spesso riesce, di persuadere il popolo che l’onestà è condizione necessaria e sufficiente al buon governo, simpatici o antipatici tonti, dinamici pasticcioni  o imbecilli riflessivi, spesi come  simbolo di correttezza, trasparenza, rispettabilità, preferibilmente concentrati su se stessi, inossidabili nell’appagamento della loro ambizione, in modo che possano prestarsi alla funzione di paravento, non accorgersi di quello che accade né sopra e né a fianco né  sotto la loro poltrona. A dimostrazione dell’attualità della lezione di Guicciardini che suggeriva, visto che in Italia “la vita non ha sostanza né verità alcuna” di coltivare l’apparenza per ingannare il prossimo.  E se per caso per motivi lodevoli o per vanità, per correttezza o per ambizione alzano la testa, ecco sbucare fuori lo scandaletto, l’amante infilata nell’ufficio stampa, le spesucce a piè di lista, diversamente ammesse, concesse e assolte solo se il supposto reo è nel frattempo salito di grado, se dimostra quotidianamente le sue doti di fedeltà e assoggettamento, se ha fatto in tempo a emanare ordinanze, leggine, circolari o grandi ed epocali riforme che permettano per legge furti in grande stile, ricatti ed estorsioni, minacce e intimidazioni.

E non è un caso che anche il garantismo sia discrezionale e intermittente, se permette e autorizza   assoluzioni preventive senza processi e condanne senza incriminazioni. Se poi il presunto colpevole è un ricco industriale, un delfino di influente casata, chissà perché diventa poco credibile che si sia messo in tasca il malloppo, a dar ragione a Cacciari che asseriva di non aver bisogno di rubare in quanto ricco di famiglia, smentito dalle abitudini di grandi dinastie, luminari e accademici, politici e boiardi che dimostrano da sempre che l’avidità e l’istinto all’accumulazione sono effetti collaterali di potere e fasto, se non addirittura il motore.

È quasi certo che andiamo peggiorando, tutto spinge verso autoritarismo dispotismo, concentrazione di poteri e competenze, premier, presidi, manager, non faranno che incrementare discrezionalità e prepotenza, arbitrarietà e arroganza, convertendo il patto di fiducia stipulato tra cittadini e stato in un contratto imposto con la forza, ma ormai accettato, per indifferenza, per delega, per cecità, per inclinazione al conformismo e all’ubbidienza, come dimostra l’infinita pazienza di fronte agli scandali, l’accettazione di valori costitutivi opposti alla Carta, l’approvazione della cancellazione dei metodi e dei soggetti della mediazione democratica.

Ma dietro a quell’infinita pazienza, dietro a quell’accidiosa acquiescenza c’è anche il contagio, la corruzione imitativa e endemica, vissuta come inevitabile autodifesa, la violazione delle regole, anche quella emulativa e diffusa. Il paese della commedia è diventato quella della tragedia  dove un sistema di rappresentanza politica si è  trasformato in un mercato di scambio fra poteri pubblici e interessi privati,   con la sistematica svendita di legalità in cambio di consenso, dove il governo riduce vincoli e controlli e i cittadini si aggirano ad aggirarli ed eluderli, dove si finanziano con fondi pubblici imprese speculative private presentate come vantaggiose per lo “sviluppo” economico e i gonzi sperano nell’azzardo e si fanno fregare, dove gli appalti sono truccati da quegli stessi cui si rivolgono gli abitanti di centri piccoli e grandi per ottenere licenze, autorizzazioni, concessioni, così secondo Bobbio potevamo essere a un tempo padroni gabbati e servi contenti. Ormai invece siamo solo servi gabbati, espropriati di sovranità, valori, ideali, aspettative, speranze.  Talmente impoveriti che abbiamo perso la forza di rivendicare quei servizi senza i quali sono violati i nostri diritti, dalla giustizia civile e penale, all’istruzione, dall’assistenza alla tutela dei meccanismi delicati di una democrazia, dalla separazione di poteri ai modi e agli strumenti a garanzia della partecipazione, dalla libertà d’espressione a un’informazione degna di questo nome. Ma non è  anche questa  rinuncia un’abiura all’onestà, quella che dovrebbe permetterci di non provare vergogna per l’essere vittime?


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