Giunto con
Il dittatore al quarto film in qualità di protagonista assoluto, il terzo con la regia di Larry Charles (
Borat, 2006 e
Bruno, 2009, mentre l’esordio del 2002,
Ali G, è firmato da Mark Mylod), l’attore inglese Sacha Baron Cohen, anche sceneggiatore (insieme a Alec Berg, David Mandel e Jeff Schaffer, sulla base del romanzo
Zabibah and the King di Saddam Hussein), tenta di dare ai suoi lavori per il grande schermo una connotazione più definita, che si distacchi in maniera netta dalle precedenti realizzazioni, debitrici in grande misura di quanto già portato in televisione. Per quanto mi riguarda, non posso fare a meno di nascondere la mia delusione e confesso di essere uscito dal cinema piuttosto stranito, ed anche abbastanza disturbato dalla visione: ciò che sulla carta mi era sembrata una satira, pur di grana grossa, si è invece palesata come un farsa vacuamente parodistica, influenzata nella sua impostazione complessiva, almeno a mio avviso, da certe pellicole tipiche degli anni ’80, in particolare quelle del “Trio ZAZ” (Jim Abrahams e i fratelli David e Jerry Zucker), senza però un minimo di coesione stilistica.
Inutile dire che tutto si regge sulle pur robuste spalle di Cohen, considerando gli scricchioli di regia e ancor più della sceneggiatura, specie nella seconda parte ambientata a New York: dopo un buon inizio nell’immaginaria Wadiya, con qualche tocco autentico e vagamente malinconico nella caratterizzazione del personaggio (la sua solitudine, per esempio, appena mitigata da fugaci rapporti, a pagamento, con star hollywoodiane come Megan Fox, rimpiazzata più efficacemente da un cuscino), l’esagerazione e l’insistenza su gag razziste, sessiste o comunque abbastanza volgari, finiscono per sfiancare; il tanto sbandierato “politicamente scorretto” diviene semplicemente “scorretto”, mi si perdoni il gioco di parole, facendo tutt’al più emergere il lato oscuro e becero di una goliardata che spesso e volentieri s’imbroda dei suoi stessi frizzi e lazzi.
Cavalcando quindi il cattivo gusto a piè sospinto, si fa fatica, parlo come personale sensazione, a sorridere, non dico a ridere, di certe “trovate” (dalla scoperta della masturbazione come alternativa al coito, scena debitrice di parecchi film adolescenziali, ad un parto con cellulare in vagina, ovviamente trillante in attesa di risposta), arrivando stancamente alla citazione finale, adeguata ai tempi, de
Il grande dittatore di
Charlie Chaplin ( ma i riferimenti cinefili sono tanti, da
Harold Lloyd ai Fratelli Marx), con un discorso piuttosto ambiguo, nella sua mancanza di coerenza ideologica, a parte il solito vacuo sberleffo, sulla democrazia, americana in particolare, descritta come una sorta di dittatura vestita a festa, per cui meglio continuare a vivere tiranni e contenti, con moglie e prole, sotto l’aura protettrice dei diritti civili.
Consigliabile a quanti gradiscano il genere, che magari riusciranno a trovare nella pellicola i più reconditi significati: personalmente non mi arrendo e dalla mia trincea continuo a prediligere, oltre i citati classici cinematografici, opere letterarie quali Il prigioniero di Zenda, 1894, Anthony Hope, o la sua derivazione a fumetti, Topolino sosia di Re Sorcio (Mickey Mouse- The Monarch of Medioka, soggetto e matite di Floyd Gottfredson, sceneggiatura di Ted Osborne, strisce giornaliere sui quotidiani americani, dal 9 agosto 1937 al 5 febbraio 1938).