“Il cuore della concorrenza tra capitali è la variazione positiva del tasso di profitti ottenuti attraverso dei monopoli temporanei dovuti all’innovazioni di prodotto o di processo . La ricerca e sviluppo è, ovviamente, un elemento cruciale in queste innovazioni. Le unità di capitale (finanziati con capitale pubblico o privato ) investite in R&S sono nella posizione migliore per appropriarsi della quota extra di profitti estraibile grazie all’innovazione di prodotto e di processo.
Questi sono quindi anche nella posizione migliore per instaurare un circolo virtuoso in cui il surplus di profitti consente un elevato flusso di finanziamenti in R&S che sarà, a sua volta, la precondizione per l’appropriazione della ulteriore futura quota extra di profitti (da innovazione), e così via. In contrapposizione le unità di capitale senza accesso iniziale alla R&S tendono ad essere intrappolate in un circolo vizioso. La conseguente incapacità di introdurre innovazioni significative impedisce l’ottenimento di quegli extra profitti da innovazione. Tutto ciò tende a sua volta a limitare la partecipazione all’avanzamento della R&S nell’unità di tempo successiva . Ciò quindi limita le innovazioni future e le future opportunità di profitto . Questa dinamica fondamentale dei rapporti di proprietà capitalistici ha profonde implicazioni . Le unità di capitale con il più ampio accesso all’investimento in R&S, quasi per definizione, tendono ad essere raggruppate in regioni ricche dell’economia globale . Le unità di capitale private dell’accesso agli investimenti in R&S invece tendono ad essere raggruppate nelle regioni più povere . Le prime unità sono in una posizione molto migliore per stabilire e mantenere il circolo virtuoso descritto sopra, mentre le seconde hanno immense difficoltà evitando il circolo vizioso Quando le unità di capitale nelle regioni più povere si impegnano in transazioni economiche con unità di capitale che godono di monopoli temporanei da innovazioni di processo e di prodotto, tendono dunque a soffrire condizioni svantaggiose di scambio.”
Tony Smith, “Technology and History in Capitalism: Marxian and Neo-Schumpeterian Perspectives” in “The Constitution of Capital – Essays on Volume I of Marx Capital” edited by Riccardo Bellofiore e Nicola Taylor.
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E’ ormai quasi un luogo comune dire che il differenziale di competitività esistente all’area valutaria (dis)omogenea dell’Euro sia dovuta alla concorrenza “sleale” dei paesi di quella che fu la vecchia “area del marco” che comprimono i propri costi di produzione tenendo basso il costo del lavoro. Senza dubbio questa visione è vera, ma ad umile avviso di questo blogger, rischia di essere una visione molto parziale. E se mi è concesso dire rischia di essere molto consolatoria, perché fondata sulla ricerca di qualcuno che pone in essere una concorrenza sleale.
Come possiamo leggere nella mia traduzione di una parte (piccola) del saggio di Tony Smith una delle chiavi dello sviluppo in un sistema capitalista (ma credo di poter dire anche collettivista e “programmato”) sono gli investimenti in ricerca e sviluppo. Se andiamo a verificare i dati della spesa in R&S rispetto al Prodotto Interno Lordo (fonte OCSE) dal 1971 ad oggi vediamo che, costantemente, gli investimenti tedeschi sono più del doppio di quelli italiani. Credo che si possa dire che non sia del tutto erronea la lamentela dei tedeschi quando velatamente ci accusano di concorrenza sleale, visto che solo con la svalutazione siamo riusciti a sopravvivere alla loro concorrenza. Certo è vero, la svalutazione è un meccanismo del tutto naturale e riequilibratore in una economia di mercato, ma anzi proprio questo fatto (correlato ai minori investimenti rispetto alla Germania in R&S) avrebbe dovuto farci pensare che entrare in una unione monetaria sarebbe stata una strada estremamente pericolosa. In sostanza, voglio dire, che proprio il modello di sviluppo (forse sarebbe giusto definirlo “non modello di sviluppo”) italiano e i vizi atavici del suo capitalismo sono alla base dell’attuale crisi (oltre che alla concorrenza sul costo del lavoro che comunque è vera).
A mio modo di vedere i vizi italiani che affossano la nostra competitività possono così essere riassunti:
1) La politica negli ultimi venti anni (almeno) ha favorito sfacciatamente, anche dal punto di vista fiscale, l’investimento in ambito immobiliare spiazzando così l’investimento produttivo che ha nell’investimento in ricerca e sviluppo un ruolo essenziale. Inutile ricordare il tormentone di Silvio Berlusconi che postulava l’assunto secondo cui quando “l’immobiliare va tutto va”. Inutile anche ricordare che negli ultimi venti anni in Italia l’hanno fatta da padroni quelli che un tempo venivano chiamati “palazzinari” e che ora vengono definiti pomposamente “immobiliaristi” tutto questo a danno di quelli che possono essere definiti imprenditori innovatori “schumpeteriani” ormai diventati una rarità e di cui invece l’Italia è stata piena in epoche passate (basti pensare a Natta o ad Olivetti);
2) L’atavico vizio dell’imprenditoria italiana ad essere “i padroni ricchi di imprese povere“, dove cioè l’imprenditore ha una bassa propensione al rischio e dunque all’investimento ed invece è interessato ad estrarre dall’azienda la maggior quantità possibile di valore anche attraverso operazioni di finanza straordinaria che molto spesso distruggono l’equilibrio finanziario ed economico dell’azienda. Tralascio di approfondire il mal vezzo di molti imprenditori - credo sotto gli occhi di tutti – di porre in essere operazioni di elusione fiscale che sottraggono al pubblico erario le risorse necessarie all’istruzione, alla formazione e alla ricerca di base. In questo caso, basta guardare, i dati dei vari provvedimenti del cosiddetto “scudo fiscale” che attestano inoppugnabilmente come le risorse sottratte con questi artifizi fiscali non vadano comunque a finanziare investimenti produttivi ma prendevano/prendono la via del conto in Svizzera.
E’ facile a questo punto intuire che un eventuale uscita dall’euro si, darebbe ristoro alla competitività delle nostre imprese, ma questa competitività sarebbe una competitività di prezzo e non una competitività qualitativa del bene/servizio prodotto e venduto nul mercato. Non è dunque difficile ipotizzare che euro o lira (o fiorino se si preferisce) questo divario di investimenti in R&S e di investimenti pubblici in istruzione e formazione (tesi a formare il capitale umano) porterebbe comunque l’Italia ad essere una nazione con un tessuto produttivo a basso valore aggiunto. Insomma, l’uscita dall’area euro rallenterebbe la nostra velocità di caduta negli inferi dei paesi in via di sviluppo ma non lo fermerebbe.