Sembra che nell’universo politico il caso Fini stia esaurendo la sua spinta entropica; durante la trasmissione “in mezz’ora”, lo stesso protagonista ha dichiarato di non volere elezioni anticipate e di voler restare nel Pdl, quindi non ci dovrebbero essere scosse significative, se non di assestamento. Le motivazioni del divorzio non hanno nulla di attuale, e per questo appaiono un po’ pretestuose, ma in realtà Fini non stava parlando di politica, ma di poker; usando il gergo del Texas hold’em Fini è andato in all-in contro il chip leader, cioè Berlusconi, in un momento in cui il vantaggio di quest’ultimo era minimo, ovvero il momento di minore popolarità del presidente del consiglio, e proprio nella mano in cui il piatto in palio valeva il rischio, e per piatto si intende la montagnola di voti/fiches che il Pdl ha perso nelle ultime elezioni regionali. “Con la riforma della giustizia dai l’impressione di voler imbavagliare la giustizia, lo so che non è tua intenzione, ma dai l’impressione”, dice più o meno il redento Fini all’ex amico di Arcore, durante l’assemblea del Pdl che passerà alla storia come quella del dito puntato; certo che il tempismo non è una delle doti di Fini. Ciò nonostante, incomprensibilmente, su Gianfranco Fini non incombe lo spettro del vile calcolo, ma un’aura di santità politica. Fini potrà anche rinnegare il fascismo e un certo tipo di destra, ma per me rimarrà sempre un nero, o al limite gli concedo lo status di diversamente fascio, perché chi difende quello che ha fatto la polizia nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, nonostante le sentenze dei tribunali e le testimonianze degli stessi carnefici (“fu una macelleria messicana”, come confessato dall’allora vicequestore Michelangelo Fournier) altro non è.